Roberto Mussapi
Every beat of my heart, la pooesia

L’alfabeto di Luzi

Nell’anno del decennale della morte, Roberto Mussapi rende omaggio al grande poeta. Con un brano di una conversazione avuta con lui nel 2003 e con una poesia che è uno dei vertici del Novecento

Il trentun dicembre 2003 incontrai Mario Luzi nella solita casa di Via Bellariva 20, a Firenze, che conoscevo da tanti anni. Fu la nostra ultima conversazione, realizzata per la rivista “Vita e Pensiero“, su cui uscì alcuni mesi dopo. È un’intervista-conversazione con il Maestro che si accinge, tra poco, a Capodanno, a entrare nel novantesimo anno d’età. Grazie alla cortesia di “Vita e Pensiero” ho realizzato un estratto del pezzo, decisamente tagliato, che propongo ai lettori di succedeoggi. (Proprio oggi si chiude, al Museo Diocesano-Ufficio dell’Arcidiocesi di Genova, il convegno “Per il dopo, per il principio – A dieci anni dalla morte di Mario Luzi” a cura di Massimo Morasso. Alla sessione odierna partecipano, fra gli altri, Roberto Mussapi, Giuseppe Conte, Giancarlo Pontiggia e Alberto Fraccacreta, ndr).

(…)

MUSSAPI: Forse è giunto il momento che la poesia ritorni a raccontare in forma melica favole e storie, come alle origini, e che il compito del narratore torni al poeta. O meglio: la lirica non finirà mai, ma può avere una svolta drammatica ed epica, anche radicale.

LUZI: Ma questo è stato già fatto agli inizi del Novecento…

MUSSAPI: Pensi a Ezra Pound…

LUZI: A Ezra Pound, ma anche a Eliot, che più di ogni altro inserisce l’epica nella lirica e non a caso approda, non in alternativa, ma in compagnia, al teatro.

MUSSAPI: Pound e Eliot lo hanno fatto, ma hanno avuto seguito sotto questo aspetto?

LUZI: Hanno assunto come loro sostanza oltre che come compito tutto quello che le altre discipline non vedevano più, e tra queste il romanzo.

MUSSAPI: Ciò è stato fatto da Eliot e da Pound, da te e da pochi altri. Ma non credo abbia avuto seguito come sarebbe necessario. E credo che si possa andare oltre, decenni dopo e arrivare a una narrativa più forte, che si avvicina a quella del poema. Sento che oggi abbiamo un grande bisogno di narrazione, ma la narrazione che anticamente apparteneva al poeta. Un’accentuazione del genere poema simile a quella che si fa nel teatro, che resta pur sempre un volto e un aspetto della poesia.

LUZI: Hai letto l’Homeros di Derek Walcott? È una costruzione un po’ particolare, però è in parte su questa linea.

MUSSAPI: Con aspetti per certi versi fascinosi e indecifrabili… simili a quelli del poema. Nei Caraibi, dove è nato e vive Walcott, e in Africa questa urgenza epica è sentita con forza.

LUZI: Walcott, secondo me, ha capito che è il poeta, nel senso più vasto del termine, che deve assumersi e magari trasformare in sé e dentro di sé il carico della rappresentazione. Mi sono accorto che il Novecento è un secolo che ha un difetto di anima, un secolo che manca molto, è difettivo, di anima e desiderio. In fondo la poesia del Novecento, con rare eccezioni tra cui il sogno un po’ bizzarro di Pound, non ha proposto nulla, in questo senso. (…) Rilke è l’ultimo dei poeti in questo senso, che hanno veramente sentito una mancanza, ma hanno anche proposto e desiderato una pienezza. E in fondo c’è tutto questo disegno. Ecco che invece nell’Occidente più stretto, più classico, non c’è più né in Francia né da noi. Che cosa è accaduto nel Novecento? Che il decoro prevale sulla causa, il decoro, tutto il letterario, il raffinato, che è poi un corredo anche elegante e prezioso ma ha incantato troppo, e ha ritardato un po’ il movimento, ecco, il respiro.

MUSSAPI: Mi anticipi su un tema che stavo per evocare: la necessità di semplificare, perché il Novecento è nato da un’oscurità probabilmente necessaria, frutto anche di un trauma.

LUZI: Beh, in qualche punto è stata anche necessaria…

MUSSAPI: C’è stato il rifiuto…

LUZI: …della semplicità.

MUSSAPI: Che non è solo un rifiuto di comunicazione, è un rifiuto di anima, di desiderio. Cioè, c’è stato l’appagamento nella sfera chiusa, letteraria.

LUZI: Un difetto di motivazione. Una prevalenza del letterario sul necessario.

MUSSAPI: Già venticinque anni fa, quando ci siamo conosciuti, avvertivo il bisogno di, quantomeno, cercare un enunciato più diretto, più semplice.

LUZI: È vero che ha perso molto tempo la poesia a parlare di se stessa, gingillandosi, secondo me, e in alcuni momenti quest’autoriflessione è stata sublime, però è diventata un po’ un vizio, cioè ha perso il rapporto con le cose. L’intervallo tra la cosa e la parola è diventato poi oggetto di varie compiacenze, ricami, purtroppo. Spero che questo nuovo secolo cominci con altre attitudini, almeno altre attitudini, altrimenti cosa diventa? (…) Ecco, Campana è il primo poeta che ho conosciuto, l’ho letto da ragazzo e veramente mi ha dato questa impressione.

MUSSAPI: Il primo poeta che hai letto?

LUZI: Sì, il primo poeta moderno, e nonostante il retaggio della letteratura che gravava su di lui esprimeva desiderio e speranza.

MUSSAPI: Le sue immagini si moltiplicano, ma si ricompongono in una scia.

LUZI: Ne parlammo la prima volta che ci siamo incontrati, saranno venticinque anni.

MUSSAPI: Arrotondiamo. Diciamo venti. Vent’anni dopo. È l’ultimo dell’anno, tra due ore sarò in treno verso Milano e tra undici tu accederai ai novanta. Auguri.

LUZI: Auguri anche a te.

***

La poesia che proponiamo, Aprile-Amore, rappresenta uno vertici del Novecento, come gran parte della poesia luziana. Due parole che iniziano per A, la lettera d’inizio dell’alfabeto. La prima evoca l’Aprile di Eliot, “il più crudele dei mesi”, in cui si fondono tormento e desiderio. La seconda il superamento bruciante del dilemma nell’estasi, trionfo su vita e morte nell’Amore, di vita e morte nell’Amore. Il verso finale è uno dei più grandi della poesia di tutti i tempi.

 

Luzi

Aprile-Amore

Il pensiero della morte m’accompagna

tra i due muri di questa via che sale

e pena lungo i suoi tornanti. Il freddo

di primavera irrita i colori,

stranisce l’erba, il glicine, fa aspra

la selce; sotto cappe ed impermeabili

punge le mani secche, mette un brivido.

 

Tempo che soffre e fa soffrire, tempo

che in un turbine chiaro porta fiori

misti a crudeli apparizioni, e ognuna

mentre ti chiedi che cos’è sparisce,

rapida nella polvere e nel vento.

 

Il cammino è per luoghi noti

se non che fatti irreali

prefigurano l’esilio e la morte.

Tu che sei, io che sono divenuto

che m’aggiro in così ventoso spazio,

uomo dietro una traccia fine e debole!

 

È incredibile ch’io ti cerchi in questo

o in altro luogo della terra dove

è molto se possiamo riconoscerci.

Ma è ancora un’età, la mia,

che s’aspetta dagli altri

quello che è in noi oppure non esiste.

L’amore aiuta a vivere, a durare,

l’amore annulla e dà principio. E quando

chi soffre o langue spera, se anche spera,

che un soccorso s’annunci di lontano,

è in lui, un soffio basta a suscitarlo.

Questo ho imparato e dimenticato mille volte,

ora da te mi torna fatto chiaro,

ora prende vivezza e verità.

 

La mia pena è durare oltre quest’attimo.

Mario Luzi

(1951, da Primizie del deserto)

 

 

 

 

 

 

 

 

Facebooktwitterlinkedin