Vincenzo Nuzzo
Incontro con Maria Antonieta Preto

La follia dei filosofi

«Il fondo del tempo ripete le storie nella memoria che non io intendo prosciugare»: la letteratura, la filosofia e la nostalgia. Con Lisbona sullo sfondo

Ci sono luoghi che parlano da soli, e permettono quindi di comprendere molte cose. Parlo proprio di una di quelle piccole “tascas” di Lisbona, e precisamente del ristorantino che offre cucina di Goa (“cozinha goesa” suona più eufonico, forse perché più carico di forza evocativa), la più famosa della colonie luse in India. Il nome del ristorantino per ora non lo dico. Lo scopriremo a poco a poco.

Ebbene, si tratta di un luogo dove usano andare a mangiare i politici della vicina Assembleia Nacional (il Parlamento portoghese) in Rua de São Bento. Un bellissimo edificio quadrangolare, candidissimo, e con una bellissima facciata neoclassica preceduta da un maestoso scalone. Un volta convento benedettino.

In ogni caso, sedendomi nel ristorantino, mi veniva proprio di pensare questo: «Dimmi dove mangiano i tuoi politici, e ti dirò in che (razza di) paese vivi». Perché, se la corruzione in politica esiste dappertutto (il Portogallo non fa per nulla eccezione!), tuttavia essa è comunque tradita, nella sua intensità e ripugnanza, dall’ostentazione unita a sua volta ad un certo manierismo legato alla mania di grandezza. È anche vero che, come diceva il mio amico Joaquim, «em Portugal è tudo pequenino».

Ed è inoltre vero che di trattorie con pretensioni da bettola pittoresca a Roma intorno a Montecitorio ce ne saranno a bizzeffe. Ma vi immaginate i nostri sussiegosi politici, griffati dalla testa ai piedi e con l’ insopprimibile puzza al naso della casta, andare a mangiare in un minuscolo ristorantino nella cui atmosfera non trasuda assolutamente nulla che ricordi nemmeno alla lontana alcuna forma di grandezza? Perfino quella, oggi così di moda, di andare a mangiare in una solo-ex-bettola. Il cui status attuale però ‒ tradito com’è dalla fama di grido, dai prezzi e spesso dal sussiego neo-culinario dell’ex-oste ‒ è ormai quello di un cosiddetto must. Un luogo dove bisogna andare per forza, altrimenti non si è trendy. E quale status esige di più l’essere trendy se non quello dei viziatissimi ed esigentissimi politici nostrani?

Ebbene, il luogo dove sono andato ieri sera a cenare era quello scelto per fare una cosa ben precisa, e cioè intervistare una scrittrice. La scrittrice lisboeta, ma di origine alentejana, Maria Antonieta Preto (Chovem cabelos na fotografia, 2004,  A resurreição da água, 2008), giornalista ed attualmente anche lei (come me) dottoranda in filosofia. L’alternativa era quella di un altro minuscolo ristorantino (di cui però non so il nome), in quanto provvisto di un focolare,  e dunque della corrispondente atmosfera per una sera lisboeta assolutamente gelida. Ma Maria Antonieta giura (e c’è veramente da crederci!) che proprio  questo genere di tempo atmosferico a Lisbona risveglia la vita dello spirito. Ed è esattamente con questo spirito che ci siamo seduti ad un tavolino del ristorante. Un luogo in cui ci si sente immediatamente accolti. Un luogo assolutamente gemütlich, come usano dire i tedeschi, ovvero accogliente nel senso del calore familiare ed insieme della promessa di riposo. Cose che sono sempre tutt’uno con l’assoluta semplicità della purezza, ossia l’assoluta autenticità del tutto priva di pretese. Dunque un luogo in alcun modo traspirante grandezza. Nemmeno la grandezza del piccolo e pittoresco. Pertanto mi ha meravigliato molto che lì potessero sedere politici. Vi immaginate infatti voi i politici italiano-romani seduti in un luogo che si chiama O cantinho da paz?

E questo è da solo, direi, un segno tipico di ciò che è il Portogallo intero, e ancor più Lisbona come sua capitale. Una capitale di 470.000  abitanti (il numero di abitanti di un quartiere della nostra Napoles). Entrambi ancora così straordinariamente ricchi di luoghi confortantemente retro. Nei quali si respira ancora quell’atmosfera le cui ultime tracce in Italia furono definitivamente spazzate via nel corso degli anni ’70 e poi seppellite negli atroci anni ‘80.

E di cui io, vecchio come sono e perdutamente innamorato di tutto ciò che è antico, ancora porto il lutto. E sempre lo porterò!

Ebbene, questo non era solo il luogo più adatto possibile per un’intervista letteraria, ma era già da solo ‒ come oggetto ideale (direbbe un Husserl), ovvero come un’essenza circondata di per sé da un alone di infinitamente possibili significati simbolici (aggiungo io) ‒ letteratura! E parlo di questo con ancora sulla lingua il gusto amaro per la terribile scoperta appena fatta: la filosofia non è più letteratura! Cioè non è più poesia! Non è più mito! Non è più vita! Non è più forte impegno morale! Non è più prassi in questo senso. È invece pura teoresi come tecnica, ovvero nel senso di una fatale deriva utilitaristica. E di tutto ciò è espressione la moda, e vera e propria ossessione della moderna Accademia, a lasciarsi manifestare solo per mezzo della trattazione di asfittiche “questioni” settoriali, piuttosto che per mezzo di grandi temi.

Di tutto questo abbiamo parlato chiamando in causa anche (rendendolo presente, benché assente) la dottissima arringa, in aula, di un altro collega, Bruno Peixe Dias. Raffinatissimo, sensibilissimo ed umanissimo intellettuale. Che mi aveva appena fatto andare in solluchero parlando della vastissima e profondissima estensione di un autentico “pensiero” posto fuori del sequestro esercitato dalla filosofia sul pensiero stesso. Pensiero tanto più autentico quanto più utile. In senso morale, e non in senso utilitarista. Un pensiero dell’uomo ed al servizio dell’uomo. Utile proprio in quanto inutile. E qui decisamente ricorre Maria Zambrano (Per un sapere dell’anima).

Abbiamo parlato di questo, e poi del mondo moderno così com’è ‒ e della nostalgia che esso, così com’è, induce per un Dio trascendente che però non manchi di manifestarsi in ogni fibra del reale. E soprattutto abbiamo parlato della questione che più sta a cuore a Maria Antonieta Preto, quella della causa animalista. A margine della quale si profilava poi la spinosa questione della bio-etica medica, insieme all’antichissima questione della legittimità o meno dell’indagine anatomica: dissezione del cadavere umano in mortuo, che si rivela poi essere affatto lontana dalla moderna dissezione in vivo del corpo animale.

Maria Antonieta Preto1Il taccuino destinato agli appunti per l’intervista se ne stava intanto nel mio zainetto. E più passava il tempo più mi accorgevo che non sarei stato mai capace di tirarlo fuori. Così come anche i libri bellissimi di Maria Antonieta se ne stavano solo sullo sfondo della nostra conversa. Perché da persona autentica e pura che lei è, Maria Antonieta Preto non aveva molta voglia di parlarne. Sebbene io l’avessi sollecitata a farlo. Quando l’anno scorso mi aveva regalato il suo libro non mi aveva neanche detto che l’aveva scritto lei. Ha lasciato che lo scoprissi da solo.

E tutto ciò ha a che fare proprio con la causa animalista da lei difesa. Che richiede per definizione il restare un passo indietro da parte di tutto ciò che è umano. Molti le rimproverano, da sottili pensatori, che nulla è più antropocentrico che questo. Ed io, sostenitore da sempre (da vichiano!) della causa della Cultura-Civiltà a fronte di quella della Natura, non potrei non ammettere questo argomento. Ma intanto, da mistico, riconosco nell’accento da lei posto sulla secondarietà assoluta dell’essere-ovviamente-uomo, di fronte all’enormità dell’infrazione morale del dolore e morte inferti all’animale, una cosa che nel mio linguaggio è virtuoso distacco. È in qualche modo contemplazione attonita del male così radicato nel mondo (contro l’animale così contro l’uomo stesso). In forza di una profonda commozione morale che non può esigere altro che la propria auto-mortificazione di uomo. Nei termini del mio linguaggio mistico-metafisico (anche se non del suo, che è ostinatamente laico proprio in forza della purezza semplice della voluta rinuncia ad ogni soverchiante sovrastruttura umano-culturale-civile) ciò equivale all’affermazione della nullità assoluta dell’uomo, e dell’individualità umana. Davanti a quel Dio trascendente di cui non a caso Scoto Eriugena (Periphyseon) disse che è un Tutto-Natura, una Totalità abbracciante ogni cosa e impregnante ogni fibra del mondo. Il tutto si riassume nella presa d’atto di ciò che Maria Antonieta Preto denuncia come la radice autentica della sua battaglia: una vera e propria iluminação. Cosa di cui va riconosciuto l’immenso valore al di là di ogni possibile precisazione filosofico-teoretica.

Di tutto questo abbiamo parlato, mentre intanto, magicamente, i suoi libri, invisibili come il mio taccuino, parlavano comunque tra le maglie del nostro discorso. Inframmezzato dalle fragorose risate con le quali, io credo, Maria Antonieta Preto usa sottolineare l’infinita vanità di tutte le pre-occupate e febbrili vanità umane. «Mas isto è maravilhoso!». È il commento in cui lei erompe sempre, riprendendosi dalle convulsioni del riso, volendo con ciò alludere al mero e neutro ricorrere di tutto il possibile entro una cornice unica di senso che è la Natura stessa. Specie quella per lei maravilhosa follia (loucura) dei filosofi. Di quelli puri e di quelli impuri.

I suoi libri dunque intanto parlavano. Chovem cabelos na fotografia, che narra di un Alentejo (così impressionante simile al nostro pietroso ed arido Sud ancora arcaico) rurale. Nel senso non solo di amaramente triste, ma anche toccantemente lirico. È la poesia das pedras ‒ di tutto ciò che è pietra ed  è di pietra ‒, di cui lei giustissimamente denuncia il proprio bisogno vitale. Che è anche il mio. A resurreição da água parla poi di una terra che conserva vivi i morti, affermando così la propria vitale sintonia con ciò che noi elementarmente siamo (cenere, eppure viva!). E che ritrae in questo il valore di un Femminile tellurico vitalizzante ma nello stesso tempo così universalmente mortificato. Proprio come lo è la Natura stessa. Una Natura in funzione di divinità che fa pensare all’ancestrale ma mai tramontata Divinità matriarcale di cui Robert Graves (La dea bianca o Leucothea). Padrona della Vita così come della Morte. Eterna istanza di guarigione, nonostante nei propri riti essa stessa dia liturgicamente la morte!

Ecco alcuni significativi estratti dai suoi libri: «Il corpo è della terra ed appartiene solo ad essa. La terra dona storie al mondo…»; «Il fondo del tempo ripete le storie nella memoria che non io intendo prosciugare»; «Aniéfora calpestava le pietre. Ed in questo gesto sentiva il cuore il cuore prolungare la memoria della terra e della notte…»; «Si, in quella casa esistevano pietre che si aggrappavano agli uomini e con essi dormivano…»; «Nell’interiorità del firmamento, che era la terra, ella contemplò la disposizione delle banderuole e dei battenti delle porte nel sangue delle muraglie, e così comprese, una volta per tutte, ogni cosa».

Di tutto questo si è parlato ieri nella tasca O cantinho da paz. Chissà perché luogo di ritrovo di politici che, come dice Maria Antonieta Preto «congeminam o que sabemos e o que não sabemos». A quando dunque, o miei lettori, il grido della riscossa contro l’atrocità del Moderno? Questo mi sembrava dire tutto ciò che c’era lì simbolicamente presente, ieri sera, in una Lisbona gelida di Marzo ed in un luogo così affascinantemente piccolo dell’affascinante piccolezza (e grandezza) di questa città.

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