Raffaello Palumbo Mosca
A proposito del «Regno»

Il Vangelo di Carrère

Il nuovo libro di Emmanuel Carrère sul Nuovo Testamento mette in risalto tutto i pregi e tutti i difetti dell'autore francese: la passione per la parola bella e per quella "sporca". Tutto fa letteratura

Emmanuel Carrère fa centro ancora una volta: Il Regno (Adelphi, 428 pagine, 22 euro) è un libro complesso e umanissimo, destinato ad accompagnarci nel lungo periodo. Intendiamoci: Carrère è scrittore grande e sommamente imperfetto (e forse grande perché sommamente imperfetto); anche qui, in questa storia che è in realtà una non storia perché è riflessione saggistico-storica su Luca (soprattutto) e Paolo, autobiografia, esplorazione di ossessioni personali (l’avversario, naturellement), i difetti tipici della sua scrittura sono in bella evidenza. Una certa abitudine alla semplificazione a effetto, il vizio dell’intelligenza e del motto brillante che stupisce invece di spiegare; e, più di tutto, il compiacimento voyeuristico e polemicamente antimoralistico di mostrare i tratti più squallidi di sé insieme al gusto per i particolari organici.

Prendete, ad esempio, questo passo in cui Carrère riflette su Jean-Claude Roman, l’«avversario», o meglio riflette sul perché la sua storia riguarda, in realtà noi tutti: «Penso che anche le persone più sicure di sé percepiscano con angoscia lo scarto che esiste fra l’immagine di sé che bene o male cercano di dare agli altri e quella che hanno di loro stesse nei momenti d’insonnia, o di depressione, quando tutto vacilla e si prendono la testa fra le mani». È un passo bellissimo e quel «prendersi la testa fra le mani», nella sua semplicità, unisce poeticamente l’indeterminatezza dell’angoscia all’esattezza del gesto quotidiano e umanissimo. (E ricorda molti desolati personaggi di Kafka, intenti appunto a prendersi il volto, o la testa, tra le mani). Tutto perfetto. Ma Carrère vuole di più, vuole scavare ancora più profondamente nella miseria; probabilmente tutto questo gli sembra troppo “nobile”, forse troppo “Ottocento” e la frase originale si chiude così: «quando tutto vacilla e si prendono la testa fra le mani, sedute sulla tazza del cesso».

Emmanuel CarrereMi sono chiesto perché questo particolare mi abbia dato immediatamente (e continui a darmi) così fastidio. Mi sono chiesto se il fastidio potesse essere solo mio, avere a che fare solamente con la mia particolare sensibilità o se, invece, non ci fosse una ragione più profonda, poetica (ed è evidente: le ragioni poetiche, insieme a quelle etiche, sono le uniche cui si possa accordare un certo valore). Ebbene, l’immagine del cesso, del defecare, che è volutamente sgradevole ma di per sé certo non scandalosa, mi pare dannosa perché toglie potenza a quel gesto, così esatto e vero del prendersi la testa fra le mani. Ho detto “vero” ed è proprio qui, per quanto controintuitivo possa apparire, il punto: quando Carrère decidere di concludere il periodo in quel modo, sta fingendo, sta mettendo in scena se stesso come autore capace di frugare negli aspetti più squallidi o bassamente corporali dell’esistenza. Vuole ricordarci ancora una volta che oggi la letteratura può raffigurare il tragico solo attraverso i due opposti ma equivalenti antidoti dell’ironia e dell’abbassamento (non per nulla si parla di «abbassamento ironico»).

Eppure queste debolezze sono anche la forza di Carrère: più ancora che la sua capacità di mettersi a nudo di fronte a e per il lettore – una capacità e un programma tipici della tradizione francese, dal Michel Leiris della Tauromachia alla autofiction di Serge Doubrovsky – ciò che è interessante è il complesso – perché mai pacificato – rapporto tra verità e proiezione di sé. È la coscienza, profonda, sentita, verissima, dell’«avversario»; un avversario incistato nella personalità di Carrère come quell’elemento ambiguo che rende impossibile una parola definitivamente dirimente su verità e finzione. Verità e finzione non solo su se stessi, ma sul mondo. L’avversario è quindi la paura del nostro essere inermi proprio mentre ci costruiamo come intellettuali di successo, come spigliati e brillanti scrittori, come uomini e donne sicuri di sé. Ma ogni costruzione di sé è sempre, un po’, anche finzione di sé, recitazione di ciò che si vorrebbe essere, che forse si sarà ma che ancora non si è. E l’avversario è, nel Regno, ovviamente anche Cristo, che ci dice di desiderare ciò che non possiamo né vogliamo desiderare: di essere gli ultimi, di essere poveri, cenciosi, disperati; di porgere l’altra guancia, di amare l’altro come noi stessi.

Emmanuel Carrere il regnoC’è tuttavia un altro elemento che le numerosissime discussioni sul Regno non hanno, mi pare, evidenziato a sufficienza. Molti hanno notato, seguendo le dichiarazioni esplicite dell’autore, che Carrère si identifica con il «tiepido» Luca. Ma l’identificazione è non solo con il Luca che crede tiepidamente, ma soprattutto con il Luca scrittore.

Perché questo particolare è importante? Perché, se Carrère ha ragione e il Cristianesimo è durato fino ad oggi, più che per l’esempio di Cristo, per l’instancabile lavoro di predicazione e evangelizzazione di Paolo e per il lavoro di scrittura dei quattro evangelisti, Carrère ci sta anche suggerendo – non so quanto consapevolmente – una tesi che a molti potrà apparire scandalosa: la religione, anche la religione cristiana, è un epifenomeno della letteratura. Il racconto – che è impasto di verità e finzione – è non solo testimonianza del messaggio, ma condizione di possibilità della sua esistenza. In quanto testimonianza e racconto allora, la religione accede all’esistenza solo nel momento in cui è tradimento e solo alla condizione di essere tradimento. Tradimento non solo e non tanto di un messaggio originario inverificabile, ma dei racconti che lo hanno preceduto: tradimento della Torah  e dei miti pagani. Il racconto nasce dall’esistenza come dagli altri racconti, tradendo e interpretando entrambi. In principio, come direbbe Lacan, era il linguaggio. O forse ancor meglio: in principio era il racconto o, addirittura, la Letteratura.

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