Andrea Carraro
A proposito di "Bosseide"

Dopo Gomorra

Con il suo nuovo romanzo Nando Vitali compie una sorta di viaggio antropologico (e letterario) nel cuore delle contraddizioni napoletane. Che hanno sempre a che fare con amore e morte

Nando Vitali è uno dei romanzieri italiani più interessanti in circolazione e lo conferma questo suo nuovo, bellissimo romanzo Bosseide (Gaffi, 238 pagine, 14,90 Euro) su un boss camorristico feroce ma anche misteriosamente tenero. Il romanzo precedente dello scrittore napoletano – sulle foibe, ma non solo, I morti non serbano rancore  (Gaffi) – era prima di tutto un grande affresco sulla guerra. E, come tutti i grandi romanzi di guerra, sapeva essere allo stesso tempo spietato e pietoso. Spietato nel mostrare l’orrore e la follia della guerra, l’abbrutimento morale, la violenza cieca, i disagi, le mutilazioni, la morte; ma anche pietoso verso i soldati, gli uomini (di qualunque schieramento: partigiani di Tito o fascisti), visti come burattini disperati e goffi e pieni di odio che si affrontano e si massacrano, proprio come avviene negli scontri dei cani, mirabilmente raccontati in una sezione (potentemente metaforica) di quello stesso libro. In fondo il protagonista – il capitano Goretti – e il suo nemico-rivale titino Erik rappresentavano due facce della stessa medaglia, tutti e due malati di odio e di morte, tutti e due capaci di amare Ivanka, sebbene un amore buio e disperato come può esserlo in quel tempo e in quelle condizioni.

Una delle chiavi di lettura di quel libro era proprio il binomio amore-morte: nel teatro della guerra, ma anche nelle pagine sull’ospedale, con il narratore al capezzale del padre morente che non può fare a meno, pur in quella condizione e disposizione d’animo, di desiderare sessualmente una donna che sta lì, in quella stessa corsia, ad assistere un altro malato terminale. Ora, se il binomio amore-morte è “romantico” per eccellenza, nel libro di Vitali l’ideale romantico si sporcava con tutti gli umori velenosi e malati della guerra, con la malattia, con la disperazione. Ma I morti non serbano rancore era anche un romanzo “napoletano”, non soltanto perché molte pagine erano ambientate a Napoli, ma anche perché erede di quella tradizione letteraria partenopea che sa fondere la realtà più degradata con la magia onirica, con il sogno. Era un romanzo napoletano per quella sorellina morta che diventava un propellente insostituibile del racconto. Era un romanzo napoletano per quell’aria luttuosa e mefitica che si respirava, per quella dimestichezza con la morte, per quel mettere sullo stesso piano i vivi e i morti.

bosseide nando vitaliIn Bosseide certi temi e certe atmosfere ritornano. Bosseide – come è stato detto da Tina Pane in queste colonne (clicca qui per leggere la presentazione) – è un grande romanzo sul Male, con capitoli che si alternano secondo un doppio punto di vista: quello, in terza persona, di un vecchio boss camorrista e quello di Don Antonio (‘o Cecato), un suo confidente cieco, cantante (suona per lui canzoni sentimentali del repertorio partenopeo), legato a Boss da un’antica amicizia, reso in forma diaristica a mo’ di confessione.  I due abitano in una villa-fortezza che chiamano Castello, con la sorella di Boss, Carmela, grande personaggio di donna del sud visionaria e sciancata, superstiziosa e infelice fin dall’infanzia per la sua menomazione, anche lei legata a Boss da un rapporto tenace e pieno di ombre, soprattutto da quando l’uomo ha perduto la moglie per un male incurabile e il figliolo – Michele – ucciso da un clan rivale. Il libro ripercorre la vita di questi tre eroi tragici dalle tinte shakespeariane (per come incarnano mitologie ancestrali oltre ad essere assolutamente credibili da un punto di vista realistico) dall’infanzia-adolescenza sino alla tarda maturità del presente. Le prime prove di coraggio virile di Boss, il battesimo del sangue, la fascinazione del Male e della Morte, l’Amore rapinoso e sensuale per la moglie Luisa, le feroci Vendette dentro e fuori del Clan, le esecuzioni per via, le torture condotte dai suoi sgherri nei sotterranei del Castello che talora finiscono con macabri riti cannibaleschi, l’uccisione di Michele e il conseguente rapimento del figlio del capoclan rivale, la reclusione in una stanza del Castello del ragazzino destinato al sacrificio.

Parallelamente seguiamo la storia di Don Antonio e, per frammenti, quella di Carmela. Antonio s’innamora di una bella e provocante ragazza del popolo, Lucia, ch’è un po’ lo specchio deformato della madre che lo ha allevato: «Lucia era fatta per l’amore. Era fatta per farsi scopare. Chiavarsi Lucia era come leccarsi le dita dopo una pizza che cola da tutte le parti». Lui a quell’epoca era un ragazzo attraente, aveva molto successo con le ragazze ma lei gli preferisce Genny, un giovanotto «basso, corto e male incavato, silenzioso, taciturno di un taciturno cattivo. Ce l’aveva con tutti perché era quasi un nano» che ha il vantaggio di essere spavaldo (finirà anche per farle violenza) e di avere una potente moto Harley-Davinson con la quale la porta in giro. Antonio perde la vista, per un capriccio del caso, per un ritorno di fiamma del carburatore cercando di riparare quella stessa moto soffiata al rivale in un momento di esaltazione gelosa. Don Antonio, ormai ceco, finisce per accettare l’invito di Boss a stare con lui al Castello, a condividere il suo destino malavitoso, sia pure nel ruolo comprimario e passivo di un consigliere e di un “cantore”. L’ultima, bellissima parte del romanzo è dedicata al rapporto che si viene instaurando a poco a poco fra Boss e il ragazzino del clan rivale tenuto prigioniero in attesa della prevista, ma ogni volta rimandata, esecuzione: uno strano sentimento di pietà, tenerezza e amore paterno sostitutivo che diventa struggente nelle pagine finali e provoca un penoso turbamento nell’animo del protagonista.

Un grande romanzo sul Male, dunque: non estraneo al clima di Gomorra, ma assai più complesso e profondo, anzitutto da un punto di vista linguistico. La lingua di Vitali è funzionale alla narrazione – Vitali è un vero romanziere – ma anche carica di ambiguità e risonanze, colta, epigrammatica, potentemente metaforica: «Ora il bambino frignava e chiedeva della madre. Un pianto odioso e straziante. Boss pensò ai suoi maiali quando lo accoglievano festosamente coi loro stridii. L’allegria e le mandibole potenti, il grugnito di piacere arcaico che faceva di quegli animali casseforti inespugnabili per le carni umane che non meritavano nemmeno l’inumazione in un pilone d’autostrada, o l’impasto nel cemento che rendeva lamentose le case della città, villaggi gonfi di morti che si reggevano con le ossa tritate. Interi quartieri di morti che continuavano a parlare nella notte fra loro».

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