Ilaria Palomba
Un romanzo Baldini&Castoldi

Metropoli prossima ventura

"Metropoli" di Massimiliano Santarossa è quasi un nuovo "1984" di Orwell: ma racconta un mondo morale tanto corrotto che non serve più nemmeno il Grande Fratello per controllarlo

L’arte è la capacità di trasporre in linguaggio il sentire muto del nostro tempo, cosa in cui Massimiliano Santarossa è maestro: già nel suo Il male (Hacca) aveva affrontato in modo del tutto originale, con un linguaggio lirico, filosofico, altissimo, le tematiche proprie di questo contemporaneo in quella che sembra una crisi incommensurabile e di cui non si scorge l’esito. Ora, con Metropoli (Baldini e Castoldi, 2015, pp. 224, 17 euro), torna all’archetipo della distopia orwelliana: un futuro prossimo in frantumi, una crisi politica, ecologica, sociale e culturale di dimensioni apocalittiche, la legge della giungla e il nulla fuori, la legge della produzione e le regole dentro i confini di Metropoli. Insomma, un mostro che genera se stesso e di se stesso si ciba, così come gli esseri umani-non più umani rinchiusi, per volontà propria, al suo interno. L’uomo del futuro ha costruito una città dentro la distruzione che si contrappone a essa come suo opposto, sua soluzione, divenendo un carcere di dimensioni stratosferiche, un immenso campo di concentramento dove, come voleva la Arendt, la banalità del male si manifesta nell’eseguire gli ordini, nel non pensare, nel non scegliere.

Il protagonista, il cui nome salterà fuori non prima della seconda metà del romanzo, diventa il cittadino 5.937.178. Come tutti ha raggiunto Metropoli per salvarsi dalla distruzione, come tutti non ha desideri, non ha futuro, non ha presente, solo vaghi ricordi dolorosi e tremendi del passato, che ci riportano al nostro presente che crolla. Nella prima parte, L’arrivo al mondo nuovo, dovrà affrontare la quarantena nel ricovero fisico psichiatrico, dove sono tornati in voga metodi disumani come l’elettroshock e la lobotomia, e se giudicati non idonei, gli internati, dovranno sottoporsi al trattamento di Liberazione, come accade ad alcuni uomini alla cui morte il protagonista assiste in silenzio. «Non vi era più confine fisico e psichico. Venivano annullate le distanze tra i corpi, consapevolmente, per consentire al dolore di scatenarsi nella vittima e dalla vittima uscire, espandersi e penetrare in tutto e tutti. La vicinanza diveniva essa stessa dolore diffuso così il dolore era uno e solo uno, per tutti e ovunque, e diveniva terapia e infine educazione».

Metropoli Massimiliano SantarossaÈ in questa prima parte che emerge il male assoluto dei corpi, e non è poi molto distante da ciò che accade davvero oggi a coloro che sono considerati diversi, non idonei, inutili, in definitiva pericolosi e da eliminare. Come nell’incubo distopico di Santarossa, così nelle nostre città, nei nostri quartieri, sono le persone più sensibili e forse le migliori a smarrirsi ed essere annientate mediante lo stimma. Nella società della produzione e del consumo, nella società delle finanze, nella società dei capitali virtuali, i più fragili, i disfunzionali, sono destinati a essere espulsi da qualsiasi sistema o gruppo o tribù, in definitiva, sono il prodotto di un sociale mostruoso che come il dio greco Kronos divora i suoi stessi figli. E che ciò sia di lezione per chi intende ribellarsi!

Nella seconda parte, Il corpo della città, il protagonista entra a far parte di quello che Metropoli è, una sorta di campo di concentramento, in cui ogni desiderio, ogni istinto, ogni filosofia o pensiero è annientato dall’imperativo della produzione, i figli vengono separati dai genitori alla nascita come in una versione macabra e nazista delle antiche utopie platoniche, basate sull’idea di Bene assoluto e sulla razionalità incontrastata. È forse questa la chiave di lettura di quello che sembra il romanzo del nostro tempo: il pericolo sempre vivo del totalitarismo di fronte al crollo completo dell’economia e di ogni valore, il pericolo di incorrere in una forma di idealismo volto a ipostatizzare il bene comune e a ingoiare l’individuo nel suo marchingegno biopolitico.

Santarossa è uno dei pochi autori in Italia in grado di parlare di temi così universali senza mai scadere nel buonismo o nell’idealismo e anzi, in queste pagine trapela una forma di nichilismo celiniano ed essenziale, dove il male è vero, reale, sentito, evidente, ma non si cade mai nell’inganno di illustrare quale sia il bene, l’ideale, la forma ultima da perseguire. Perché la letteratura non deve rassicurare, non deve placare le angosce personali e sociali, forse il suo compito è invece quello di portarle alla luce. L’arte è una forma di sacrificio e necessita del coraggio di spingersi nei territori più oscuri dell’inconscio collettivo. Santarossa sembra condividere il monito di Celine e Houellebecq per cui lo scrittore ha il dovere di illustrare il male della propria epoca ma con l’intimo desiderio di venir smentito.

«Il crollo del sistema economico non fu un crollo. È stata una rigenerazione, la pulizia di un mondo sovrapopolato. Dieci miliardi di esseri intenti a divorarsi. L’economia era l’anima di quel corpo mastodontico. Morta l’economia il corpo è imploso. Il Crollo Produttivo fu l’antidoto, il Crollo Produttivo fu la soluzione, il Crollo Produttivo fu la rinascita nella morte. Dall’esplosione del sistema trovò spazio prima il vuoto, di seguito il silenzio e poi un ulteriore inizio: il quarto dell’umanità, dal padre al figlio, dal figlio allo spirito, dallo spirito all’orfano».

L’ultima parte, Il peso dell’anima, è quella della presa di coscienza. Come in 1984 anche in Metropoli esiste una forma di resistenza interna al sistema ma a differenza del romanzo di Orwell qui la resistenza non è creata come forma di inganno, è ancora peggio. Non c’è più bisogno di un Grande Fratello che tutto vede e tutto domina, gli uomini di Metropoli sono arrivati alla perfezione massima della schiavitù: producono e divorano se stessi e così la resistenza in questi luoghi bui dei sottosuoli non fa che produrre la propria stessa emarginazione, divorando i frutti della propria carne. In tutto il viaggio del protagonista, Marcus, in questo inferno, all’orizzonte c’è una donna che parallelamente percorre il suo di viaggio cercando disperatamente il figlio che l’è stato sottratto al tempo del suo ingresso a Metropoli. La donna si chiama Sofia e il nome non sembra essere casuale, Sofia come il sapere, raffigurato nella Bibbia dal serpente e dal conseguente gesto di Eva che provoca la caduta nel peccato, e che invece è in questo caso il movente primo verso ogni libera scelta, ogni coraggiosa discesa negli inferi per conoscere, per scoprire, per affrontare con coraggio la verità e scegliere.«La libertà inizia al principio del nulla».

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