Ilaria Palomba
A proposito di «Supernova»

Cronache dal male

Tre adolescenti scendono le scale dell'inferno nel nuovo romanzo di Isabella Santacroce. Esattamente come predica una società che quotidianamente profana amore e desiderio

Supernova (Mondadori, 2015, pp. 161, 18 euro) è l’undicesimo romanzo di Isabella Santacroce, e richiama per temi, linguaggio e argomentazioni la sua prima trilogia, in particolare Luminal, dove una lingua lirica e postmoderna accompagnava in un viaggio notturno e psichedelico le due protagoniste, tanto spietate e immorali, quanto romantiche e sognatrici. In Supernova c’è la stessa dimensione di romanticismo e immoralità, accompagnata da una semantica poetica e fresca, che trascina il lettore violentemente fino all’ultima pagina.

Forse in quest’ultimo libro l’aspetto del dolore è esplorato con più profondità rispetto a quello dell’estasi, più prossimo invece al contesto di Luminal.

I tre protagonisti di Supernova, Dorothy, Divna e Thomas, sono tre adolescenti di sedici e diciassette anni, con famiglie smembrate e oscene, portati quasi naturalmente alla perdizione. Una perdizione sofferta e angosciante, vissuta come ineludibile effetto del fato, più che come scelta, una caduta in un abisso che è la scelta di non scegliere, di lasciarsi scivolare nel baratro, senza però mai perdere di vista il cielo. E il cielo è l’immagine mentale del loro riscatto, il contrario dell’abiezione in cui costantemente si sentono costretti: diventare divi, supereroi. Il senso di onnipotenza dell’infanzia si trasforma in mostro allucinatorio e insieme in favola, quella del Mago di Oz, che la madre di Dorothy sempre le ha narrato, facendola vivere in un mondo ovattato di sogni, per nasconderle l’incubo cui la condannava: condividere il suo abietto destino di prostituzione, malaffare, droga, corpi senz’anima, dissociazione.

isabella santacroce suernovaÈ una critica feroce, quella di Isabella Santacroce, a un mondo di adulti spietato e vorace, che divora l’infanzia, l’adolescenza, stupra, violenta, sevizia ciò che non può più concedersi di incarnare.

Questo è sommamente occidentale, viviamo il tempo dell’ipostatizzazione della giovinezza, il puer aeternus immorale e immortale domina il nostro immaginario collettivo. La pedofilia è ovunque, radicata in modo più o meno esplicito. Il messaggio mediatico è che solo i corpi giovani contengano una carica erotica degna di essere desiderata e desiderabile, e sono corpi sempre più giovani, sempre più giovani e sempre più magri, sempre più inumani. Foucault parlava di biopolitica per intendere quelle pratiche con cui il potere gestisce, domina e determina l’agire dei corpi. Così, biopolitica sarebbe ipostatizzare un modello di erotismo basato sull’incarnazione dell’eterna giovinezza, della purezza da profanare come la bellezza, nell’Erotismo di Bataille, «la si desidera per poterla corrompere».

È a questo piano di costante profanazione di un’innocenza perduta che sono condannati i corpi messi in scena da Isabella Santacroce, sempre desideranti e sempre soggiogati da logiche sadomasochistiche, alla ricerca disperata di una purezza forse soltanto onirica, rincorrono le favole e una dolcezza che brucia, taglia, dilania, poiché sempre si specchia nel suo sgretolarsi. L’erotismo è sempre presente ma anche assente in quanto costantemente tramutato in violenza, stupro, orrore. L’identità della persona viene frammentata in questo concedersi per soldi, per fama, per desiderio di piacere e nello stesso tempo soffoca in uno sdoppiamento fatto di infiniti specchi che sono narcisi, insieme potenti e fragili, incapaci di elaborare anche solo lontanamente un’idea di futuro. L’abolizione del futuro ha eternizzato il presente e quest’assenza di prospettiva vive insieme l’estasi e la dannazione di un edonismo mortifero, in cui eros e thanatos sono indistinguibili.

Isabella santacroceC’è una domanda che percorre l’intero romanzo: che cosa c’entra tutto questo con l’amore? E credo sia qui la chiave dell’intero libro. I momenti più alti sono gli intensi e folli flussi di coscienza di Dorothy, negli attimi più fragili e tragici, in cui vita e morte sono tra loro embricate come sintesi indistinguibili di un’epoca fatta di nulla. «Divna aveva ragione, ma io sentivo un richiamo, e non erano più solo i soldi a tentarmi: il male è un vampiro che morde il tuo collo. Ne senti il dolore, e allora scappi, e dici mai più, ma ti rimane qualcosa di nero nel sangue, la traccia del suo sapore proibito».

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