Danilo Maestosi
Un'artista al cinema

Come raccontare l’arte?

Il film di Mike Leigh dedicato a William Turner è un ottimo prodotto che svela molti particolari della vita del grande pittore inglese. Ma non ne svela minimamente il cuore creativo

Gran bel film, in odore da Oscar, quello che Mike Leigh dedica a William Turner (1775-1851), rivoluzionario maestro inglese del paesaggio. Una regia che cattura emozioni con mano leggera, ricostruzioni d’epoca rigorose, smagliante fotografia, sceneggiatura dosata, cast eccellente e un primattore, Timothy Spall che riesce a imporre e rendere credibile la sua maschera da caratterista. Un frutto raro, insomma, visto che il cinema ha quasi sempre maltrattato il mondo dell’arte, nel quale continua a compiere rapinose incursioni, attratto dal fascino trasgressivo e malato che accompagna la figura e la biografia di molti autori.

Ricordo, per citar qualche esempio, un film sulla nascita della Cappella Sistina con un risibile Charlton Heston schiacciato dal confronto con un divo inafferrabile per i gusti di Hollywood come Michelangelo. Un paio di pellicole che trasformavano in caricatura il genio macho e rapace di Picasso, un’altra che si trastullava con una posticcia Boheme per raccontare gli ultimi disperati giorni di Modigliani, un’altra ancora che scivolava nel grottesco delle vignette su Brunetta inseguendo gli impossibili amori del nano gentiluomo Toulouse Lautrec. Filmetti di seconda mano così ancorati alla cronaca e alla leggenda dei personaggi da rendere trascurabile il senso e il fascino delle loro opere.

O al contrario qualche raro capolavoro come la Ricotta di Pasolini che attingeva all’iconografia di due Deposizioni di Pontormo e Rosso per accentuare e rendere ancora più stridente il calvario di un povero cristo di comparsa dimenticato sulla Croce. L’arte come citazione, rimbalzo, ricarica d’immaginario, mai come creatività in gestazione, campo d’indagine.

turner2Anche il Turner di Mike Leigh si dibatte, sia pure con grande dignità, tra questi due estremi. O almeno così a me pare: un giudizio da pittore che ama il cinema. Il copione è costruito su un collage di testimonianze e fonti d’epoca di storici, conoscenti, colleghi, ma il suo rigore documentale è travolto dalle soluzioni drammaturgiche che questo Turner da grande schermo con le sue contraddizioni, le sue intemperanze e i suoi eccessi offre agli sceneggiatori, che a quelle testimonianze dimenticano di fare la tara. Prendendo a metro una dichiarazione di un altro celebre paesaggista rivale, il pittore Constable, che considerava Turner un uomo molto rozzo. E certo così doveva sembrare a molti in quella Londra primo Ottocento ipocrita e classista che maldigeriva il suo accento cockney e la sua bassa estrazione sociale di figlio di un modesto barbiere, ma che, se gli aveva spalancato sin da giovane le porte dell’Accademia e del successo, doveva comunque ritenere le sue stramberie accettabili. Un po’ come fare un ritratto di Nerone basandosi sui resoconti faziosi di Svetonio o altri scrittori al soldo del senato romano.

Non stupisce dunque che il Turner rivisitato con questi criteri esibisca una rozzezza fin troppo accentuata, eloquio da scaricatore, grugniti animaleschi, smorfie da attore di varietà. E pensieri terra terra, poco credibili in un artista profetico come lui, che dischiude alla pittura le soglie della modernità, che nella piena maturità giunge a elaborare sintesi figurative così innovative e raffinate e che sul letto di morte sembra si sia congedato dal mondo gridando «Dio è luce».

Mike Leigh gli mette in bocca in una delle scene finali proprio questa battuta: quale appiglio migliore per renderne il trapasso comunque esemplare, all’altezza della sua fama? Ma si ferma lì. Con Turner prova a gareggiare in bravura sfruttando le capacità di simulazione che la macchina da presa gli offre. Ma non tenta mai di guardare il mondo con i suoi occhi di pittore. O meglio, lo fa per pochi secondi una sola volta. Ed è una delle scene più riuscite del film. 1850: nel Salon cominciano ad apparire i quadri dei Preraffaelliti, uno dei tanti ritorni indietro che cadenzano il cammino della pittura. Sul volto di Timothy Pall il regista disegna e cattura due smorfie. Una di disprezzo, l’altra di dubbio: e se il futuro non fosse quello su cui lui ha investito tutto?

Dell’uomo Turner invece, grazie a questo film ora sappiamo molto di più. Nel bene e nel male. Sappiamo che adorava il padre, ma era un pessimo padre; che amava la buona musica ma era stonato; che era legato da sincero affetto all’umile vedova scelta a compagna e confidente negli ultimi anni di vita, ma trattava come un oggetto di rapidi e fugaci sfoghi sessuali la sua governante; che era schivo, orgoglioso e sprezzante con gran parte dei suoi colleghi, ma cauto e a suo modo cerimonioso con i collezionisti e gli estimatori. Ma del Turner pittore abbiamo a conti fatti appreso ben poco, nulla che possa spiegarci la scoperta di quel Dio sconosciuto cui rivolge la sua ultima invocazione e che ha guidato verso l’assoluto del mai tentato prima il suo pennello.

William TurnerMike Leigh non lesina lo spettacolo dei quadri più noti di Turner, cui riserva molte inquadrature. E ancor meno l’incanto struggente dei paesaggi, dei fenomeni naturali che l’hanno ispirato: sfiorano la perfezione quei campi lunghi ripresi dal vero di cieli al tramonto e lividi mari in tempesta, di colline, vallate, montagne, ispide brughiere, spiagge e scogliere dai bagliori accecanti. Quegli scorci di navi alla fonda, battelli diretti in porto a vele spiegate, che il regista registra e incastona come cammei nel riquadro di una finestra, nello spiraglio di una porta dischiusa e rimandano ognuno al dettaglio di una tela che abbiamo ammirato su un catalogo o in una sala di museo. Ora sappiamo come e dove Turner ha indirizzato il suo sguardo e possiamo condividerne il piacere e lo stupore. Ma continuiamo a ignorare lo scarto che ha trasformato quelle stupende immagini da cartoline in opere d’arte. Che ha spinto Turner, a differenza di tanti altri validissimi pittori coevi che con quelle stesse vedute si sono misurati, a stravolgerle in visioni sempre più infuocate e sfocate per distillarne l’essenza, farne lo specchio di verità più intense e profonde. Spingendole fino al limite estremo di un’apparenza di non finito la sua pittura. Vicino e oltre quei traguardi di scomposizione ottica e inseguimento dell’istante che daranno corpo alle eresie antiaccademiche dagli impressionisti.

Ma forse la rinuncia di Leigh ad azzardarsi su questa strada è un segno di saggia modestia. Per comunicare emozioni il cinema – è il suo statuto di prodotto collettivo e tecnologico che ignora, nonostante l’immenso apparato di trucchi ed effetti speciali di cui dispone, le vertigini dell’astrazione – non può distaccarsi dall’immanenza del racconto, sfondarne più di tanto la superficie. È questo che gli rende estraneo, forse inaccessibile il mistero, quel bisogno di rendere visibile l’invisibile, che è terreno d’approdo e rovello di ogni bravo pittore. Quel nume che appunto Turner insegue nelle alchimie mercuriali delle luci e delle ombre e vede ogni volta svaporarsi davanti come un miraggio.

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