Odetta Melazzini
Radiografia del terrorismo/3

La catena dell’Islam

Il Corano e i hadith sono le fonti del diritto islamico, la shari’a. Esse sono fondate sulla trasmissione delle norme e dell'esempio. Ed è proprio da qui, dagli esempi, che talvolta le cose si confondono

Dopo aver analizzato la fonte principale del diritto islamico, il Corano, è ora opportuna una rapida disamina sulla documentazione della tradizione profetica. Come abbiamo già visto, Maometto, oltre a essere il Profeta di Allah e l’interprete per eccellenza del Corano, fu anche la sola guida religiosa e politica dell’ummah islamica. Egli fu il modello del buon musulmano non solo perché rivelò il Corano per volontà divina, ma anche grazie alle sue parole e ai suoi atti. Partecipò pienamente alla vita sociale e fu giudice, legislatore, ma anche padre e amico dei suoi figli. Quando fu necessario, combatté. Tutto il passaggio della sua vita terrestre, i suoi dolori e le sue fatiche, le difficoltà e le prove, come risposta ai molti interrogativi che riguardano la vita individuale e collettiva dei musulmani, si trova nei detti che egli tramandò, i hadith, e nella sua vita pratica quotidiana, la sunnah.

Sunnah significa letteralmente “la via battuta” e il termine, nell’Arabia preislamica, indicava un comportamento esemplare a cui conformarsi, una consuetudine. L’Islam rappresentò un momento di rottura, di forte discontinuità con il passato della jahiliyyah, l’epoca oscura dell’ignoranza. Il concetto di sunnah riemerse rapidamente e venne a designare l’esempio, il precedente posto dal Profeta. Progressivamente il ricordo di questi comportamenti passò dalla tradizione orale alla certificazione scritta sotto forma di hadith in senso tecnico. Hadith e sunnah restarono, tuttavia, per lungo tempo termini tra loro semplicemente collegati. È solo con l’opera di al-Shafi’i (800 d.C.) che la sunnah venne a identificarsi con la tradizione profetica, documentata attraverso i hadith che risalgono direttamente a Maometto.  Dopo il Corano, il quale va interpretato alla sua luce, la sunnah diventò la seconda fonte (asl) del diritto islamico, che trova fondamento nel Corano: «Avete nel Messaggero di Allah un bell’esempio per voi, per chi spera in Allah e nell’Ultimo Giorno e ricorda Allah frequentemente» (Corano, XXXIII,21).

Entro il X secolo si aggiunse alla sunnah il significato generico di ortodossia. Gli ahl sunnah (gente della sunnah) si contrappongono agli ahl al-bida’, a coloro che sostennero come riprovevoli tutte le idee innovatrici. Anche per gli sciiti la sunnah è considerata norma fondamentale ma, rispetto ai sunniti, essi aggiungono alla sunnah del Profeta anche quella degli Imam, discendenti di ‘Ali, cugino di Maometto. Vi è, infine, un ultimo significato tecnico-giuridico che indica come sunnah tutti quegli atti che, pur non essendo obbligatori, sono raccomandati e apprezzati, senza che ciò necessariamente presupponga che la regola di diritto che li disciplina si tratta di un hadith.  Il termine hadith indica comunemente un racconto e assume nell’ambito delle scienze islamiche il significato tecnico di tradizione profetica e viene utilizzata per indicare la linea di condotta del Profeta, trasmessa di generazione in generazione, oralmente, mediante una catena di persone degne di fede di cui il primo anello furono i testimoni appartenenti alla cerchia dei compagni o seguaci di Maometto.

Un hadith, o tradizione religiosa verbale, si orienta naturalmente verso una corrispondente sunnah, o norma di pratica religiosa; i hadith costituiscono la fonte di cognizione della sunnah. La loro rilevanza è importante non solo per la scienza giuridica islamica, ma anche per le scienze religiose nel loro complesso.

Con il passare del tempo il numero di hadith aumentò e si rese necessaria una loro registrazione. Vennero allora compilate diverse raccolte, che possono trovarsi organizzate secondo diversi metodi di classificazione (derivanti dalla stessa autorità, riguardanti lo stesso argomento ecc.). La distinzione fondamentale è quella tra hadith nabawi (da nabi, profeta) e hadith qudsi (santi). Nei primi si riporta un’affermazione fatta direttamente da Maometto, i secondi, invece, iniziano con l’espressione qul (di), perché in essi è Allah che si esprime per bocca del Profeta. Questi detti rivestono per il musulmano un’importanza fondamentale costituendo il corpus al quale far riferimento nell’applicazione della seconda parte della confessione di fede, ossia l’imitazione, per il proprio comportamento, alla condotta di Muhammad.

Una seconda importante classificazione distingue: hadith sahih (sani), i migliori; hadith hasan (belli), che, senza raggiungere la perfezione dei primi, possono avere carattere normativo; hadith da’if (deboli), che hanno semplice funzione persuasiva o edificatoria; hadith saqim (malati). La maggior parte è classificata come hasan.

shari’aIl Corano e i hadith sono le fonti del diritto islamico, la shari’a. La parola shari’a significa, in origine, sentiero o strada che porta all’acqua: shari’a è la via che conduce alla fonte della vita. Il verbo shari’a significa letteralmente segnare (con la calce) una strada precisa in direzione dell’acqua. Essa rappresenta non solo la retta via che conduce ogni musulmano verso Allah, ma anche l’itinerario e la regola che Allah stesso ha inviato a tutti i credenti tramite il Suo Messaggero, il Profeta Muhammad. La shari’a comprende in sé sia la morale sia il diritto.

La shari’a è strettamente collegata al fiqh, termine che, spesso, viene sovrapposto ad essa nell’ambito di un campo semantico coperto nelle lingue europee dall’espressione “diritto islamico”. Fiqh è in origine l’atto di comprendere e di capire la shari’a e designa un’attività squisitamente umana, non attribuibile ad Allah o al Suo Profeta. La shari’a è invece posta da Dio, il supremo Legislatore. È fondamentale, quando si parla di shari’a fare riferimento alle sue fonti perché il diritto islamico, a differenza del diritto romano, non è un insieme di regole e leggi compilate dall’uomo, ma un sistema che si è sviluppato a partire dai principi religiosi rivelati contenuti in fonti differenti. La shari’a rappresenta il complesso di norme religiose, giuridiche e sociali direttamente fondate sulla dottrina coranica; si basa su varie fonti: il Corano, che ha validità assoluta, e i hadith.

Fin dai primi tempi, successivi alla morte di Maometto, tuttavia, si presentarono delle situazioni in cui gli ulema (esperti di diritto) non poterono elaborare una soluzione basandosi esclusivamente su queste fonti. Venne introdotto, allora, un primo metodo per stabilire codici di comportamento non descritti nel Corano: l’ijma, ossia il consenso. L’ijma è l’opinione concorde della comunità; di fatto, è intesa come l’accordo unanime dei giurisperiti più autorevoli, purché il loro numero sia ragionevolmente alto e il loro parere sia chiaramente formulato.

Un’altra fonte specificatamente giuridica che venne introdotta fu l’interpretazione analogica o qiyas. Essa fu oggetto di gravi controversie poiché si ritenne empio utilizzare la ragione umana per colmare un’apparente lacuna divina. Essa riuscì ad ottenere l’autorità propria delle fonti solo verso l’800 d.C.

shari’a2L’estensione delle conquiste islamiche e il perdurare di grandi stati islamici fino al XIX secolo rese indispensabile integrare il sistema classico delle fonti con altri strumenti, legati a una più sviluppata attività legislativa e giudiziaria, ovvero a particolari tradizioni locali. Le fonti non canoniche non fanno parte delle fonti classiche islamiche sopra elencate, sebbene vengano utilizzate nella maggior parte dei paesi di diritto islamico. La prima di queste fonti è la consuetudine (urf). Vi è da precisare che ci sono paesi islamici retti da un diritto consuetudinario non islamico, come l’Indonesia, e paesi di diritto islamico in cui la urf sembra essere esclusa dalle fonti del diritto. La consuetudine ha una sua esistenza non ufficiale, legata a situazioni anteriori all’islamizzazione di un determinato territorio e contribuisce ad integrare il diritto islamico. Le decisioni giudiziarie possono essere considerate le seconde fonti non canoniche di diritto, poiché tendono ad integrarlo. L’assestamento dell’impero islamico e, in seguito, la formazione di parlamenti, generarono, come ultima fonte, il decreto del sovrano (qanun) del singolo paese, introducendo in questo modo una doppia giurisdizione: il qadi (giudice monocratico religioso) continuò ad applicare la legge sacra, mentre i tribunali laici applicarono il qanun.

In tempi recenti per risolvere determinate questioni giuridiche si è fatto ricorso al concetto di pubblico interesse inteso in senso lato. In Tunisia, ad esempio, è stato stabilito un limite alla poligamia poiché un uomo non può comportarsi in modo eguale nei confronti di tutte le sue mogli e, di conseguenza, questa ineguaglianza di trattamento (soprattutto economica) oltre ad essere contraria al dettame coranico è anche contraria al pubblico interesse.

3. Continua

Clicca qui per leggere la prima parte: «Gli islam del mondo»

Clicca qui per leggere la seconda parte: «I verbi di Dio»

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