Paola Benadusi Marzocca
Odisseo secondo Valerio Massimo Manfredi

Ulisse si racconta

Da brillante divulgatore storico, l'autore avanza ipotesi audaci ripercorrendo come in un romanzo le note avventure del mitico eroe omerico a cui conferisce un inedito spessore psicologico. Una ricostruzione, la sua, avvincente e rigorosa

La storia raramente restituisce la verità sulla vita dei grandi e meno grandi, mentre la leggenda soprattutto quando si mescola al mito, lascia ritratti indelebili che entrano nell’immaginario collettivo superando ogni stereotipo. È questo il caso di Ulisse sulle cui avventure un’infinità di testi sono stati scritti, senza contare film e sceneggiati tra cui la miniserie in quattro puntate andata in onda di recente su Rai 1. Il romanzo di Odisseo (Mondadori, 392 pagine,17 euro) di Valerio Massimo Manfredi, brillante divulgatore storico, premiato a livello internazionale, si legge con il piacere che solo una ricostruzione avvincente, quanto rigorosa storicamente, può suscitare. Lo scrittore non ha il potere di rianimare gli eroi omerici, perché sono figure dai contorni nebulosi e indistinti, ma non per questo meno credibili. Ma la figura di Ulisse assume nel suo romanzo uno spessore psicologico, una dimensione umana finora assenti. L’io narrante è lui, Odisseo, il protagonista della storia.

OdisseoCome scrive l’autore questo libro «è un romanzo, ovvero una narrazione fantastica in cui ipotesi anche audaci sono possibili, sebbene non dimostrabili». E una di queste riguarda, per l’appunto, il nome Odisseo, «un nome maledetto che contiene la radice dell’odio». Questo nome gli è stato dato dal nonno materno Autolico, che avrà un ruolo importante nella vita di Odisseo fin dall’infanzia quanto il padre, il valoroso re Laerte, che partecipò con gli Argonauti alla ricerca del vello d’oro. La forza delle parole è in grado di compiere imprese formidabili; esse possono infatti acquistare una sostanza misteriosa, magica; possono collegarsi alla divinità, ma anche alla libertà di scelta degli uomini. Così infatti parla Laerte a Odisseo impaurito dal significato sinistro del suo nome: «Non temere: sarai tu, con le tue azioni e le tue imprese, con la forza del tuo braccio e della mente a dare un senso al tuo nome…».
Nella storia di Ulisse l’immaginazione umana trova modo di espandersi in uno scenario senza confini, quasi un “mondo parallelo”, dove avvengono cose fantastiche come nel viaggio di ritorno da Troia dell’eroe omerico con i suoi compagni, un’autentica “odissea”, nome che ormai incarna l’identità dell’avventura umana per eccellenza. La vicenda è nota, e non ha la pretesa di essere originale: dopo la caduta di Troia, da lui provocata con l’astuto stratagemma dell’enorme cavallo di legno nel cui ventre si sarebbero nascosti gli uomini migliori, i più coraggiosi, per conquistare dopo dieci anni di guerra la città che sembrava invincibile, Odisseo si muove sulle coste mediterranee. In questa guerra sanguinosa e terribile che non tutti volevano e per primo Ulisse, gli dei partecipano a fianco dei guerrieri omerici, alcuni con i Troiani, altri con gli Achei ai limiti di una frontiera fra il tempo e il luogo, in cui solo il Fato detta la sua legge. «Il Fato non è altro che il risultato di mille e mille volontà, infinite, umane e divine, della forza delle onde e del soffio dei venti, del canto degli uccelli e del moto degli astri, così come un grande fiume è fatto di mille e mille correnti e la sua forza è invincibile». Ma Atena, la dea della saggezza, dagli occhi verdi, che sovente si incarna in una civetta, è colei che protegge Odisseo fin dall’inizio della sua vicenda e lo salva con la sua presenza nei momenti più drammatici del ritorno all’isola di Itaca, alla sposa amata e mai in nessun istante dimenticata; al figlio Telemaco, lasciato bambino.
Quando Odisseo finalmente viene lasciato dai Feaci in una piccola spiaggia di Itaca, è solo, nessuno dei suoi compagni si è salvato e nel momento del risveglio non riconosce la terra in cui è nato. «Itaca… Itaca! Avrei voluto inginocchiarmi e baciarla la mia terra. Ero tornato! Ero a casa! Come avevo potuto non riconoscere il profumo? Era la mia terra tanto invocata e desiderata nelle ore amare, disperate…».
Atena, dopo molto tempo, fa sentire la sua voce e lo guida nel difficile rientro nel suo palazzo, occupato dai Proci che per vent’anni, essendosi sparsa la voce della morte di Odisseo, gli avevano inisidiato la moglie, usufruendo delle sue ricchezze, minacciando la vita del figlio. Tra i pochi Argo, il vecchio cane spelacchiato e dagli «occhi vitrei e quasi spenti», lo riconosce per primo e poi muore.
Ora i ricordi lasciano posto alla vendetta. La gara dell’arco proposta da Penelope, a cui Odisseo per ordine della dea non si è rivelato, ai giovani pretendenti alla sua mano segna l’inizio del massacro. «Nel silenzio profondo… incoccai la freccia e presi la mira… c’era una ragione che tutto rendeva legittimo, uno scopo per cui anche la mia dea aveva combattuto al mio fianco: la giustizia, che è il compito più alto di un re». Cosa che sarebbe auspicabile, ai nostri giorni, che più spesso i governanti ricordassero.

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