Paolo Petroni
«Quattro buffe storie» in scena a Roma

Il teatro a due

Glauco Mauri e Roberto Sturno giocano con Pirandello e Cechov: un monologo e tre atti brevi che confezionano una sorta di grande "gioco delle parti”

Uno spettacolo raffinato ed elegante dalle scelte di regia, firmata da Glauco Mauri, alle scene di Giuliano Spinelli che sembrano ispirarsi ai lucidi neri del miglior Bertacca, è questo Quattro buffe storie, due di Pirandello e due di Cechov, che ha debuttato in prima nazionale al Parioli, dove si replica sino al 15 febbraio, con in scena, assieme a Mauri, Roberto Sturno, Mauro Mandolini e Laura Garofoli, tutti molto applauditi da un pubblico divertito dal gioco comico e sul filo del grottesco, ma pieno di umanità, che nasce dalla messinscena dei quattro testi.

Mauri e Sturno da anni vanno sperimentando un loro percorso attraverso i classici, passando dal teatro alla letteratura e con puntate curiose nel contemporaneo o giochi come quello che propongono ora, in cui tre atti unici e un monologo, con bei siparietti introduttivi musicati da Germano Mazzocchetti, hanno rimandi l’uno nell’altro, in un continuo gioco delle parti, nel provare a recitare quel che non si è, tra improntitudine e insicurezze. E, in questo senso, Cecè di Luigi Pirandello che apre lo spettacolo è una sorta di manifesto introduttivo, con questo antipatico gagà manipolatore, il povero imprenditore in imbarazzo e costretto a giocare una partita non sua, una bella donna “di quelle” tutt’altro che remissiva ma alla fine unica vera vittima.

Segue il celeberrimo La patente, sempre di Pirandello, in cui l’innominabile Rosario Chiarchiaro, mascherato da jettatore «da far spavento», si presenta in tribunale, dove vuole perdere una causa, così da risultare un terribile porta-sfortuna dichiarato, patentato legalmente dalla sentenza di un giudice, e campare poi ricattando la gente che lo teme e non lo vuole nelle vicinanze. Il tutto sempre sul filo del grottesco, col confronto tra il giudice razionalista e le ragioni dello jettatore, che verrà concluso da un colpo di scena finale. Ognuno recita la sua parte, in fondo, per ingannare in qualche modo gli altri. Viene poi la Domanda di matrimonio di Anton Cechov, in cui recitano momenti di remissività un uomo pieno di dolori e tic psicosomatici e una donna presuntuosa. I due, sempre preda di irrazionalità e orgoglio malriposto, sono sempre pronti a litigare sulla proprietà di un terreno o sull’abilità dei propri cani, pur avendo in realtà necessità di sposarsi e continueranno quindi la propria lotta «per questioni di principio» all’interno del matrimonio. Un matrimonio che patisce il povero conferenziere controvoglia de Il tabacco fa male, ancora di Cechov, timorosa vittima di una moglie padrona, il quale finisce per parlare dei propri guai, una volta che può sfogarsi e lamentarsi con qualcuno, invece di spiegare quale veleno possa essere il fumo.

È quest’ultimo pezzo, più del suo implacabile Chiarchiaro, la cartina di tornasole dello spettacolo, perché Glauco Mauri, che ricorda nel programma di sala come lo recitasse nel 1954 il grande Memo Benassi, non ha la sua musicalità, ma lavora più modernamente sullo stato d’animo del personaggio, giocando sui tremori del discorso, sulle sue confessioni con la voce che arriva al confine del singhiozzo, senza oltrepassarlo, sulle proprie pene, donandogli una profonda e vera umanità che ci coinvolge. E l’umanità, al fondo di questi personaggi, è ciò che tutti alla fine riescono a tirar fuori, spegnendo ogni antipatia, coinvolgendo in una risata, ma poi costringendo a intima comprensione, l’ottimo e trasformista Sturno, ora Cecè, ora l’agitatissimo Limonov che si vuol sposare, e con lui Mauro Mandolini e le interpretazioni seducenti e d’intimo vigore di Laura Garofoli.

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