Erminia Pellecchia
Una installazione a Palazzo Donnaregina

Scolpire la realtà

Il Madre rende omaggio a Perino e Vele, i due scultori irpini che che "riusano" la realtà quotidiana come un vaso di Pandora per cercarne un senso più profondo.

Le cassette della frutta, quelle del banco delle arance tra via Duomo e via Settembrini, ben settantadue, riprodotte in ferro zingato e impilate in maniera scomposta. All’interno di questa catasta improvvisata, di questo “magazzino di strada”, occhieggiano nove vasi in vetroresina catramata di diverse forme e dimensioni, dal sapore vagamente archeologico. È un’architettura fatta di “quasi niente”, ma il colpo d’occhio è sorprendente: l’installazione pensata site-specific da Perino e Vele per il secondo cortile del Madre rimanda alla merlatura della chiesa di Donnaregina che si eleva al di là del muro e alla Napoli sotterranea, la Neapolis che ancora respira al di sotto del dedalo di vicoli e slarghi del quartiere San Lorenzo. Passato e presente in dialogo nella cinquantaquattresima sala del museo, che il presidente della Fondazione Donnaregina, Pierpaolo Forte, ha battezzato «delle sculture» e che poco alla volta sta prendendo corpo con le nuove acquisizioni di opere di Tony Cragg, Carlo Alfano e ora della coppia avellinese che proprio con il loro The Big Archive, tra memoria ed esistente, celebra i vent’anni di una ricerca artistica in cui l’originalità formale si fa corpo d’impegno sociale sul fil rouge dell’ironia.

«Estetica ecologica», la definisce il direttore del Madre, Andrea Viliani, che, proseguendo «un lavoro meditato e che ora si fa vedere» per l’arricchimento della collezione permanente, ha voluto fortemente la presenza di questi due «artisti cittadini che prediligono l’ideologia dell’opera al suo utilizzo economico». E quale occasione migliore di un ventennale, perché, sottolinea, «il Madre non è e non vuole essere un mero contenitore, ma un luogo di studio e di riflessione sul sistema dell’arte contemporanea, uno spazio di conoscenza aperto al pubblico e non di esclusiva appartenenza agli addetti».

Faccia a faccia, dunque, con la storia e le pulsioni che hanno animato la rivoluzione del secondo Novecento e che arrivano vive ai giorni nostri. È riduttivo chiamare tributi quelli che il museo di via Donnaregina ha dedicato a Lucio Amelio, gallerista e mecenate, e a Filiberto Menna, il critico costruttore del nuovo. Altro che nostalgia!, è piuttosto il tessere i fili di un ragionamento complessivo sull’ieri e sull’oggi. Ed in quest’ottica si posiziona l’omaggio a (Emiliano) Perino & (Luca) Vele che, per Eugenio Viola curatore di questo intenso Vent’anni dopo suggellato dal raffinato catalogo (All Around Art, Milano), «significa essenzialmente ricucire un discorso critico intorno le ragioni e gli sviluppi della scultura in Italia nell’autunno del secolo breve».

Il Madre strizza l’occhio alle produzioni campane, operazione da plaudire. È una scoperta, infatti, il miracolo della Valle Caudina, di questa Factory che ha l’epicentro proprio nella Rotondi di Emiliano (classe 1973), e Luca (1975), un Comune di sole tremila anime in cui si concentra un pezzetto di arte contemporanea, un micro segmento magnetico ad alta densità creativa. Accanto al prefabbricato di Perino & Vele troviamo lo studio di Luigi Mainolfi, la masseria di Eugenio Giliberti, il capannone di Umberto Manzo, il bunker di Lucio e Peppe Perone. A venti chilometri c’è Mimmo Paladino, ad altri venti Nicola De Maria, insomma un vero e proprio Sistema Irpinia, fatto dagli artisti e dai galleristi e collezionisti che accorrono come api sul miele nell’antico Sannio. I due ragazzi, usciti dal mitico liceo artistico di Benevento e da subito insigniti della patente della Biennale di Venezia di Harold Szeemann, non si sono montati la testa. Ti accolgono con semplicità in quel residuato del terremoto del 1980 sorto accanto all’officina meccanica di papà Perino – i Vele, emigranti di ritorno da New York, gestiscono invece una trattoria – che hanno trasformato in fucina, costruendo con le loro mani un enorme frullatore di due metri dove impastano e modellano la cartapesta, il loro marchio. Inutile chiedere la formula, è più segreta di quella della Coca Cola. «Il nostro liceo era povero – sorridono – Potevi solo scegliere tra argilla, gesso, matite e cartapesta. Noi abbiamo optato per quest’ultima e non l’abbiamo mai abbandonata». Poltrone, vasche da bagno, carrelli…: il loro “studio” assomiglia a una discarica di relitti della società consumistica. Dappertutto giornali, biglietti della Lottomatica, volantini di supermercati, manifesti e facsimili elettorali che alchemicamente si dissolvono prestandosi ad altre forme e significati ulteriori.  Come l’installazione Esposito Transiternational, l’Apecar arrugginita recuperata tra i rottami dell’Officina del papà di Emiliano e dotata di un telone di cartapesta quadrettata a mo’ di morbida trapunta, o le Cinquecento rinvenute da uno sfasciacarrozze, rimodernate con la capote di cartapesta e piazzate nella stazione Salvator Rosa della metropolitana di Napoli. «Oggetti della nostra vita quotidiana di cui plasmiamo l’impronta corporea per restituire loro una nuova identità», dice la coppia, «due in uno» di scultori.

perino e vele2Tra gigantismo, surrealismo e una certa teatralità dell’Arte Povera, Perino & Vele, suggerisce Viola, «ci restituiscono un mondo a quadretti, la cui patina gentile e apparentemente rassicurante nasconde in realtà la denuncia delle lacerazioni e contraddizioni che affliggono la contemporaneità. Non è un caso che il materiale spesso sia la carta stampata che restituisce notizie e immagini di un mondo incerto». Sì, ma al di là del precipizio c’è la speranza. Un messaggio che è forte in The Big Archive, in quei vasi che evocano il mito di Pandora e che sono la recente icona e l’inedito stilema del “vent’anni dopo”. Cambia la prospettiva, si cerca di mettere ordine nella deriva della contemporaneità. «Scoperchiare il vaso di Pandora – osserva lo storico dell’arte Lorenzo Crespi – significa affrontare la realtà così com’è e superarne i limiti e le aberrazioni con senso di responsabilità nei confronti della società e dell’ambiente». Elpis, la speranza. Immagazzinata provocatoriamente come sostanza pericolosa. Da “scoperchiare” per risvegliare le coscienze assopite.

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