Anna Camaiti Hostert
Un lavoro di Murri e Rosati

Scandaloso cinema

Esce in dvd un documentario sul rapporto (difficile) tra cinema e censura. Dalle pretese della Dc sulla morale privata a quelle del Pci sul morale pubblica

A ben guardare fin dal sottotitolo di Scandalo in sala, La sfida tra Potere e Cinema in Italia, il documentario in uscita in home–video con Istituto Luce- Cinecittà, adesso in vendita nelle librerie e su Amazon, dove alla P maiuscola di Potere si oppone la C altrettantomaiuscola di Cinema, propone  una dicotomia che li ha visti contrapposti con pari dignità e quasi ad armi pari. E dico quasi, perché non si può certo sottovalutare il male che la censura o quella strana ‘cosa’ che l’ha sostituita sotto il nome di “revisione preventiva”, ambedue varate dalla grande balena democristiana, dove Andreotti ha giocato un ruolo da leone, ha fatto alla settima arte e ai suoi numerosi artisti, oltreché naturalmente al pubblico cinematografico.

Tuttavia ciò che questo prezioso documentario di Serafino Murri e Alexandra Rosati evidenzia è che al di là di una censura che ha oscurato scene di film, bollato come pornografici grandi capolavori, sequestrato e, almeno in un caso, bruciato pellicole, il cinema, negli anni che vanno dal 1947 fino agli anni ’90, ha rappresentato un bastione artistico a favore della libertà di pensiero e di espressione contro un potere repressivo e tentacolare. Un cinema di grande qualità che rappresentava una complessità culturale oggi scomparsa a favore della semplificazione di un pensiero unico che, colpevoli la televisione prima e la livellazione di Internet e dei social network  poi, ha smarrito l’amore per la cultura. Questo ci fa capire questo documentario.

È quanto mai stravagante che in un paese che si fregia di avere avuto una coscienza sociale cosi diffusa, impegnata e capillare tra le masse proprio in quegli anni, si debba al cinema, all’arte cioè, più che alla politica vera e propria, l’unica vera critica laica e, mi si perdoni la parola ormai obsoleta, di sinistra, ad un potere asfissiante e  molto conformista. «L’Italia stava a destra, il cinema a sinistra» scrive Monicelli cogliendo, con la sua tagliente acutezza di toscano doc,una verità inoppugnabile, dove per sinistra non si intende l’altra chiesa, quella del PCI che pretendeva di sussumere sotto la sua ala di “Padre-padrone” – come afferma Bertolucci – tutte le propaggini che gli stavano fuori, ma invece tutta quella vasta area di dissenso dall’establishment che aveva a che vedere più in generale con la libertà di espressione e di pensiero. E al proposito è interessante conoscere la reazione del Pci al film 900 di Bertolucci che nel 1976 fece una proiezione speciale per l’intellighenzia comunista del partito e fu accolto da una critica feroce che bollò il suo film come «brutto, bruttissimo».

Le testimonianze di Bellocchio, dei Taviani o di Moretti a proposito del loro rapporto conflittuale con il Partito Comunista di allora, confermano una ristrettezza mentale da parte del partito ed esaltano il ruolo essenziale del cinema a favore della libertà di espressione e di critica politica all’assetto sociale. Il lavoro di Murri e Rosati rappresenta non solo un pezzo di storia d’Italia, diretto in particolare alle giovani generazioni, in cui si spiega molto chiaramente l’intreccio tra cultura e politica in Italia in più di quarant’anni decisivi per il nostro paese, ma anche un documento di grande valore che ci restituisce un’immagine potente del nostro cinema attraverso i suoi protagonisti più importanti. Ci sono interviste a Bellocchio, Bertolucci, De Sapio, Giordana, Labate, Monicelli, Moretti, i Taviani, immagini di repertorio di Fellini, Ferreri, Petri, Pasolini, che in prima persona parlano di quegli anni. E specie questi ultimi di come hanno dissacrato due luoghi sacri e intoccabili dell’assetto sociale italiano: la famiglia, lo stato.

Sono gli anni del movimento studentesco, del ’68, a cui seguono gli anni di piombo . Ma in quegli anni c’è anche il movimento delle donne che apre nuovi spazi a nuovi soggetti. Una piccola notazione di una delle poche donne del cinema italiano, Wilma Labate. La regista racconta delle difficoltà del suo esordio salvo poi aggiungere che il paternalismo affettuoso e protettivo di tutti gli uomini dai tecnici ai registi è stato un dono prezioso alla sua professionalità. Anche se attribuisce la sua entrata nel cinema ad una giovane donna fotografa, Anna, che stava andando a scattare foto in Marocco. Quello spirito di libertà che si respirava e che apriva porte chiuse fino ad allora alle donne soprattutto nel cinema, la possibilità di fare cose che non erano mai state fatte prima, la spinsero a misurarsi con queste novità.

Poi arrivano gli anni del riflusso o, come afferma Bertolucci, del «Grande Disimpegno» seguiti dai ‘90 con l’avvento di Berlusconi e delle sue televisioni che rendono “televisionabile” il cinema comprandoselo e cambiandone la natura.  Depotenziandone la carica eversiva, ma anche la complessità. Mettendolo sempre in seconda serata e interrompendo i film con la pubblicità. Famosa è la polemica di Fellini al proposito, citata nel documentario. Poi, in regime di duopolio televisivo, (e in seguito di monopolio quando Berlusconi diviene presidente del Consiglio), passa la legge 122 varata dall’ex-comunista Veltroni che consegna il cinema ad un sistema di finanziamento televisivo che, si legge nella quarta di copertina del DVD, «di fatto diventa l’esercizio  di un controllo sostanziale su forme e contenuti dei film. Una situazione al limite dell’autocensura, il cui solo antidoto in direzione di un’indipendenza produttiva e ideologica sembra essere l’autarchia». Un’autocensura che si attiva in presenza di un pensiero unico, semplificato e che tiene in scacco la cultura ormai ridotta a brandelli, a pezzi. A questa situazione, in assenza di una nuova legge sul cinema, quanto mai necessaria, si può rispondere, quando sia possibile, con la produzione indipendente come fa Moretti che, rifacendosi al titolo del film del suo esordio Io sono un autarchico, produce in proprio. Purtroppo una rarità.

A tenere insieme tutti questi elementi c’è, in questo bel documentario, il filo conduttore del critico Alberto Crespi che ci accompagna lungo tutte le fasi e i periodi storici spiegando in modo fine, chiaro e con punte di ironia, cosa è accaduto in quegli anni e cosa sta accadendo ora. Consiglio di vedere anche gli extra che – oltre a mostrare sotto la denominazione Goof & Ciaks i vari errori e spezzoni dei ciak di tutti questi registi – sotto il titolo Piccolo Lessico Sentimentale danno informazioni preziose e curiosità sulla vita personale dei registi protagonisti.

Davvero un piccolo gioiello questo Scandalo in sala che vale la pena di vedere non solo per capire la parabola discendente della cultura italiana, ma se, ancora possibile, per tentare di porvi rimedio prima che sia troppo tardi.

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