Vincenzo Nuzzo
Un viaggio letterario

Napoli & Lisbona

Il mare, la luce, la saudade e la propensione a illudersi. Viaggio parallelo in due città (quasi) gemelle. Inseguendo le parole di Pessoa e di Leopardi

La foce del Tejo si estende in lunghezza e larghezza in una maniera che, al napoletano in vena di fantasie nostalgiche, suggerisce irresistibilmente una similitudine con l’azzurrissimo braccio di mare che ‒ se contemplato da una finestra (alla quale sia provvidenzialmente nascosto lo scenario troppo tipico della lacapriana “cartolina” ed inoltre l’ampia e chiusa curva costiera sottostante al Vesuvio) ‒  si estende tra le rive della città di Napoli e l’interminabile deriva dolomitica con la quale la penisola sorrentina lentissimamente sprofonda negli abissi del mare aperto. Il Mediterraneo tirreno.

Chi guarda questo scenario da Napoli, trovandosi sulla riva settentrionale del Golfo e guardando dunque verso sud, avrà l’impressione di una foce aperta in senso diametralmente opposto, verso il mare, rispetto a quella lisboeta. Lisbona infatti sorge sulla riva meridionale del Tejo, e così chi si trova nella sua posizione guarderà la distesa acquea rivolto verso nord. Eppure sia le acque del Golfo che le acque del Tejo si gettano nel mare verso ovest. L’Occidente eterno.

Nello stesso tempo su entrambe le città domina un Castello: a Napoli il post-medievale Sant’Elmo, a Lisbona il medievale São Jorge.

Per il resto molte differenze: Napoli luminosamente e briosamente aperta nella sua sanguigna identità ispanico-mediterranea, e Lisbona ombrosamente e corruscamente ripiegata nella sua pensosa identità luso-atlantica. Dunque luce ed ombra, gioia prorompente e malinconia. Opposti! Eppure l’Occidente eterno chiama allo stesso modo come un supremo Ignoto pieno di prodigi ed orrori. Così in Mensagem di Pessoa. Qui le radici di una saudade che non può che essere indicibilmente comune. Il Fado, Era de maggio e Chiove lo dimostrano inoppugnabilmente.

Dunque, differenze solo apparentemente. Le radici greche e perfino pre-greche sono sovrapponibili. Lo stesso è anche per l’affondare in una storia remota sconfinante nel mito.

napoli guachesUn elemento in particolare: Ulisse! Le sue peregrinazioni circumnavigarono i nostri mari e poi si persero oltre il fatidico Cabo São Vicente (luogo mitico perfino in epoca storica con i misteri del corvo di San Vincenzo e con il soggiornare sulle sue rive di quella leggenda vivente che fu El Rei Infante Dom Sebastião, promessa perenne del Quinto Imperio nelle visioni poetiche del Pessoa di Mensagem). Ed infine la luce! Identità nella differenza. A Lisboa una luce abbacinante, purissima, che può insopportabilmente penetrare e ferire l’anima come una crudele lama splendente. A Napoli una luce sfolgorante, ma spessa, affatto pura, che però non cessa mai di lasciar partecipare l’anima della sua densa e gioiosa sostanza.

Ebbene chi è mai questo napoletano contemplante? Non si può certo dire che sia un napoletano “tipico”. Eppure in qualche modo lo è. Lo è in quanto è un sempre-fuori-luogo. Proprio come lo è ogni senza patria per natura, predisposto come tale al perpetuo esilio : ‒ in patria e fuori. Dunque perdutamente innamorato delle città che rinviano ostinatamente ad un loro invisibile eppure tangibile paradigma celeste.

Ma ciò accade in fondo proprio perché egli è sì un tipo, anche se affatto comune. Si direbbe antropologico, ma forse sarebbe molto meglio definirlo spirituale. In questo senso, sì, universale. Ma in senso solo filosofico-poetico. È uno che per costituzione connatale piomba da solitudini eteree in solitudini terrene e terrestri. E così sempre divorato da un sogno divorante. Per questo non può non contemplare. E cos’altro si può contemplare se non il mare, la distesa d’acqua aperta sull’Infinito ed in essa sprofondante? A Napoli oltre gli strapiombi di Trentaremi dove fluttuano i gabbiani narrando di una città che non è quella alle nostre spalle. A Lisbona oltre il forte di Almada (sulle cui rive la notte passeggiava l’amante di un sognatore, l’Infante stesso), oltre la bianca Torre di Belem, ed oltre la barra limacciosa del Tejo. Dove candide creste spumose incessantemente si avventano furiose, pazze d’amore, verso la brulla terra.

L’Infante comtemplare lo fece sempre, seduto lungo intere notti di luna a Cabo sotto O Mosteirinho. Anche lui era uno straniero per costituzione. Altri, molto simili a lui, lo furono da un lato e dall’altro, in forza del vibrare insopportabilmente spasmodico della loro anima poetica e filosofica. Contemplatori di infiniti per la cruda certezza nell’implacabilità ferrea del destino terreno-carneo, brulicante di indifferenti deità. Leopardi e Pessoa. Stoici per vocazione. Struggentemente simili nel loro affidare a un ostinato sognare la mistica del fallimento e dell’assenza. Così anche un ormai morente John Keats (una sua lettera che espone questa teoria proprio dal porto di Napoli).

Ma i contemplatori sono inevitabilmente anche camminatori. Flaneurs.

Leopardi, un non napoletano che dovette venire a morire a Napoli, e che sarebbe potuto essere muito bem lisboeta. Uno che fuggiva disperato dalle crude e selvagge grazie vesuviane della casa del Conte Ranieri per frugare affamato di vita tra le folle di via Toledo. Tra gli scanzonati e rumorosi caffè dove gli Einheimische, gli indigeni, disinvolti come sempre nel loro rigurgitante brodo di coltura, lo gratificavano alle spalle della tipica loro sferzante quanto brutalmente amorevole ironia, con l’epiteto crudelissimo di “rannavuottolo”. Pessoa, un lisboeta che trascinava la sua anima altrettanto irrimediabilmente ferita a morte per le strade di una Lisbona che, perché no?, sarebbe potuta anche essere la Napoli dei napoletani-non-tipicamente-napoletani. Alla Leopardi. Egli passava come un’ombra tra robusti e volgari giovani Naturburschen, che discorrevano di amori spermatici e vitalissime scaltrezze, ma intanto marciavano ignari verso la morte in un’esistenza fatalmente senza senso e carattere. Poi sedeva da Martinho da Arcada trovando la pace dell’eterno davanti ad una tazzina vuota mentre fumava. Ed infine la notte, dopo essere appena sopravvissuto a bige mattine frananti in ordinari cataclismi naturali, vedeva nelle case immerse nell’ombra presenze alludenti ad un inesprimibile destino. Mute e sinistre ma confortanti.

Di tutto questo si può sentire la presenza tra Napoli e Lisbona. E direi che ce n’è abbastanza per trovarle dei luoghi straordinariamente simili. Oltre perfino lo struggente sarabulho da bettola di Tabucchi ed oltre perfino il treno notturno di Pascal Mercier.

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