Carmine Mezzacappa
Ricordo del grande regista

L’Italia di Rosi

La voglia costante di raccontare il presente attraverso la storia passata: ecco la lezione di Francesco Rosi. Un'eredità che la nostra cultura stenta a ritrovare

Se il cinema italiano poté vivere una stagione esaltante tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni del miracolo economico, fu grazie alla sensibilità di quei registi che si assunsero il compito di descrivere la Ricostruzione del Paese sia sul piano morale (affrontando, alcune volte direttamente, altre in modo velato, il tema delle macerie lasciate dal fascismo) sia sul piano economico (raccontando vicende significative di uomini e donne nella cornice di un disordinato ma rapidissimo sviluppo industriale che non ha avuto eguali in Europa). I film del Neorealismo, prima, e della commedia all’italiana, dopo (due generi che hanno fatto scuola a livello mondiale nel modo di fare cinema di impegno civile ma hanno anche influenzato il pensiero e i comportamenti di artisti e intellettuali in generale), hanno fornito un’illuminante documentazione di come andavano mutando le radici e l’identità dell’Italia. La capacità del nostro cinema di rappresentare la società di quel periodo fu sicuramente superiore a quella della letteratura e di altre espressioni artistiche e credo sia doveroso nutrire profonda gratitudine per i registi che, con le loro opere, ci hanno lasciato un prezioso patrimonio di memoria senza il quale la nostra conoscenza collettiva dell’Italia tra il ’45 e la fine degli anni Sessanta sarebbe gravemente ridotta.

le mani sulla cittàTra quei registi c’è, ovviamente in prima fila, Francesco Rosi al quale dobbiamo riconoscere un ulteriore merito particolare rispetto a tanti suoi colleghi. Quella felice stagione cinematografica di cui sopra subì un drammatico corto circuito che durò dai tardi anni Sessanta a quasi tutti gli anni Settanta a causa di una complessa serie di concomitanti cause politiche ed economiche nazionali e internazionali tra cui, per esempio, il terrorismo e la crisi petrolifera. Francesco Rosi – che aveva esordito affrontando temi scottanti come la camorra, in La sfida (1958), la trasformazione della mafia nel dopoguerra in Salvatore Giuliano (1962), la corruzione e il malgoverno delle amministrazioni locali in Le mani sulla città (1963, nella foto sopra) – si era formato al cinema di Rossellini e Visconti (che morirono proprio negli anni Settanta quando ancora ci sarebbe stato bisogno della loro guida) e non si lasciò condizionare dal disorientamento politico, culturale ed etico provocato dagli anni di piombo. In quel clima di tensione, il cinema italiano degli anni Settanta ripiegò su generi “nazional-popolari” (in particolare il «poliziottesco» e la commedia sexy, peraltro oggi diventati cult)che offuscarono l’eredità artistica e morale del Neorealismo e della commedia all’italiana. Rosi ebbe il coraggio e la coerenza di continuare a svolgere il proprio impegno di testimone del suo tempo proponendo un cinema di forte impegno civile in quel momento di transizione particolarmente tormentato della nostra Storia mantenendo sempre salda la barra del timone dei canoni più illustri del cinema italiano.

Ho avuto l’onore di conoscere di persona Francesco Rosi quando, nella primavera del 1999, venne invitato dall’Istituto Italiano di Cultura di Edimburgo a presentare una mini-rassegna di suoi film all’Italian Film Festival della capitale scozzese, una vetrina del cinema italiano in Gran Bretagna di cui ero stato uno dei promotori fin dalla sua fondazione. Ebbi il gradevolissimo incarico di accompagnarlo a visitare la città e parlammo proprio di quella sua preziosa unicità, ossia di avere protetto l’eredità del cinema neorealista nei tormentati anni Settanta (con Uomini contro, 1970, Il caso Mattei, 1972, Lucky Luciano, 1973, Cadaveri eccellenti, 1974, Cristo si è fermato a Eboli, 1979, Tre fratelli, 1980)da chi voleva disconoscerla. E di averne saputo conservare lo spirito di testimonianza il cui scopo era di contribuire alla fedele costruzione di una memoria documentaria di quel tempo. In Gran Bretagna (ma anche negli Usa), Francesco Rosi era visto – proprio per la sua funzione di saldatura tra la gloriosa stagione del Neorealismo e la timida ma promettente rinascita del cinema degli anni Ottanta-Novanta (senza il suo esempio non si sarebbero forse creati i presupposti positivi per il cinema di Moretti, Mazzacurati, Soldini, Martone, Giordana, per fare solo alcuni nomi) – come un «politically committed filmmaker of the Left» in virtù dell’esplicita etichetta assegnatagli da John Michalczyk, docente, critico e regista di documentari politici americano, in un suo ampio e articolato saggio che comprendeva anche capitoli su Pasolini, Pontecorvo, Petri, Bellocchio, Bertolucci, Wertmuller (ma stranamente escludeva nomi autorevoli come Lizzani e Montaldo). Gliene feci cenno e lui disse che, pur conoscendo il lavoro complessivo di Michalczyk, non aveva mai letto quel suo saggio. Lo accompagnai alla biblioteca dell’Università di Edimburgo per fotocopiare il capitolo che parlava di lui e mi resi subito conto che quella definizione non gli era del tutto gradita anche se lui, pur non essendo mai stato iscritto a nessun partito, non aveva mai nascosto la sua vicinanza a Pci e Psi. Mi disse che trovava quella classificazione viziata da un equivoco di fondo: nei suoi film l’impegno civile non aveva l’obiettivo di esprimere un’analisi politica o fare militanza ideologica bensì quello di elaborare un documento storico degno di essere classificato come “fonte primaria” perché, vista la sua cura maniacale nella ricerca dei dettagli più minuti, il suo metodo di lavorazione era basato su meticolose ricerche storiche, letture di processi e atti giudiziari, articoli di cronaca, il cui fine era di elaborare un’accurata ricostruzione dei fatti. Mi venne spontaneo esprimergli la mia ammirazione e commentai che era merito suo se era stata conferita dalla critica e dal pubblico dignità artistica al genere del “film-inchiesta”.

salvatore giulianoFui conquistato dall’affabilità e dalla passione con cui Rosi discorreva del suo lavoro ma, allo stesso tempo non perdeva nulla della bellezza di Edimburgo interrompendo la nostra conversazione cinematografica per farmi domande sulla storia urbanistica della città il cui centro storico, diviso dalla frenetica Princes Street, aveva due facce nettamente diverse: la settecentesca New Town e la medievale Old Town. E mentre gli indicavo le esclusivissime abitazioni di Ramsay Gardens, visibili dal Mound, riprese il discorso dicendo che un punto cardine del suo lavoro era di considerare lo spettatore un soggetto attivo del processo di fruizione del cinema e di avere sempre evitato – con spirito brechtiano – di ricorrere alle corde dell’emotività. Con una punta di orgoglio confessò che gli faceva immensamente piacere quando i critici sostenevano che i suoi film non erano documentari ma racconti documentati perché sapeva bene che in Italia non esisteva (e non esiste nemmeno oggi) un pubblico specifico appassionato di documentari e quindi la formula del film-inchiesta era una via di mezzo che conciliava le aspettative del pubblico in cerca di “entertainment”, l’urgenza dell’impegno civile e l’obiettivo stilistico. Gli feci notare che Michalczyk, pur ingabbiandolo nell’etichetta di “regista di sinistra politicamente impegnato”, gli attribuiva la qualità di “saggista” definendo “dialettica” la sua tecnica narrativa in quanto il suo metodo “tesi-antitesi-sintesi” stabiliva un dialogo costruttivo tra regista/film e spettatore, che veniva sollecitato a formarsi una propria idea del tema trattato, attraverso strumenti come l’uso del presente storico, la narrazione con il tono del reportage, i flashback e le ricostruzioni di episodi biografici dei protagonisti.

uomini controEbbi la netta impressione che il ruolo di «storico della società italiana che sviluppa un rapporto dialettico con il pubblico» lo lusingasse e gli fosse assai più congeniale perché metteva in luce in modo più appropriato il suo impegno di interprete degli stati d’animo della società italiana. Mi disse che non si stancava mai di ripetere ai critici che era stato un bene se non aveva fatto l‘adattamento di Cristo si è fermato ad Eboli subito dopo l’incontro con Carlo Levi sul set di Salvatore Giuliano perché, negli anni Sessanta, era ancora troppo forte l’influenza di uno spirito post-neorealista intriso di pietismo che non avrebbe reso giustizia all’analisi del romanzo-saggio di Carlo Levi sulla condizione meridionale. In sostanza, la percezione di quel romanzo, negli anni Sessanta, sarebbe stata assai diversa dalla percezione e dall’interpretazione che il regista avrebbe infatti dato nei tardi anni Settanta.  Ma se Cristo si è fermato a Eboli, in cui viene presentata una società rurale meridionale colpevolmente abbandonata a se stessa dalla politica e non compresa dagli intellettuali, fu girato al momento giusto, Francesco Rosi ammise che non poteva dire la stessa cosa riguardo a Uomini contro (nella foto sopra) perché, in quel caso, aveva forzato lo spirito del romanzo di Lussu, Un anno sull’altipiano. Invece di ricreare le atmosfere della prima guerra mondiale, Rosi – raccontando, da una parte, le vicende di soldati semplici provenienti dalle classi più umili e destinati al macello in trincea e, dall’altra, e gli atteggiamenti autoritari degli ufficiali borghesi ottusamente legati ai regolamenti – aveva trasferito nella storia di Lussu lo spirito del ’68 impregnato di anti-americanismo a causa della guerra in Vietnam. Un errore, tuttavia, interessante perché oggi Uomini contro non è la rappresentazione degli stati d’animo della prima guerra mondiale ma è, piuttosto, un documento di come la prima guerra mondiale, alla luce delle idee del ’68 e del conflitto in Vietnam, veniva percepita in quegli anni. Da una riflessione completamente diversa rispetto a quella del libro di Lussu emerge un documento significativo del clima culturale e politico dell’Italia del 1970.

E se gli errori possono avere un loro senso anche positivo, possono essere significative le omissioni. Continuando la nostra appassionata conversazione lungo l’elegante George Street, parlando de La tregua il discorso inevitabilmente andò a toccare il tema della Resistenza. Nei tardi anni Novanta c’erano stati diversi film, con approcci contrastanti, su quel periodo (Porzus e I piccoli maestri, per citare due titoli) ma Francesco Rosi riteneva che la Resistenza dovesse essere preservata sia da ripetitive celebrazioni che non aggiungevano nulla al suo valore etico sia da perniciosi revisionismi storici. Mi disse che gli era stato sollecitato di proporre un progetto per un film sul fascismo ma lui aveva risposto che a quel tema era fondamentale avvicinarsi con grande equilibro e che il suo obiettivo era di evidenziare le forme di fascismo nella società del presente, nelle istituzioni, nei rapporti tra chi detiene il potere, perché il fascismo più pericoloso non era quello conclusosi con la morte di Mussolini ma quello che ciclicamente tentava di ripresentarsi tra le pieghe della nostra giovane democrazia ancora incompiuta.

Quel suo commento mi fece indirettamente comprendere quali erano le ragioni più profonde che avevano spinto Rosi a concentrare la sua attenzione sulle problematiche che avevano ritardato, o addirittura impedito, una crescita armoniosa dell’Italia dal dopoguerra ad oggi. Ma soprattutto riuscii a capire che tutti i suoi film, attenti a percepire e rappresentare i temi più controversi della nostra società e della nostra Storia, nel momento in cui erano stati girati avevano avuto la dimensione di “documenti” mentre, nel corso del tempo, avevano acquisito – secondo una classificazione ripresa e aggiornata da Remo Ceserani, illustre studioso di storiografie letterarie comparate – la dimensione di “monumenti”. In altre parole, le testimonianze dei “documenti” di Rosi, formulate in relazione all’attualità, avevano la dimensione di un’opera che viveva nel presente, interagiva con l’attualità e rispecchiava il dibattito che si sviluppava sugli stati d’animo di una certa epoca riguardo ad un certo tema. Ma oggi, quando guardiamo i suoi film, ci accorgiamo che sono “monumenti”: infatti, se vogliamo per esempio capire le radici della corruzione politica in Italia, Le mani sulla città è un prezioso spunto di riflessione che dice molto dei primi anni Sessanta ma ci permette anche di stabilire un filo comune con altri film girati da altri registi in periodi successivi. Lo stesso si può dire, se vogliamo affrontare una discussione approfondita sulla trasformazione della mafia dal secondo dopoguerra ad oggi, di Salvatore Giuliano e Lucky Luciano, oppure, se si vogliono comprendere le dinamiche dei rapporti tra l’Italia e le potenze petrolifere internazionali, allora Il caso Mattei, attraverso lo studio della personalità di una figura chiave della Storia italiana dell’immediato dopoguerra, ci illustra come l’Italia dovesse misurarsi allo stesso tempo con terrorismo, mafia, corruzione, crisi economiche e tensioni nei rapporti con le potenze mondiali che interferivano nelle nostre scelte politiche ed economiche.

Rosi mi confidò che non si era limitato solo a rappresentare la realtà storica del nostro Paese ma, anzi, in alcuni casi l’aveva addirittura vissuta di persona. Con la voce che gli si incrinava per l’emozione, accennò alla tragica vicenda della sparizione di Mauro De Mauro, il giornalista dell’Ora che collaborava con Francesco Rosi alla stesura de Il caso Mattei svolgendo ricerche sulla morte del presidente dell’Eni dopo una sua visita in Sicilia.

Di questo, e di molto altro, parlammo quel giorno attraversando il centro di Edimburgo. Ma vorrei finire con una nota più personale per esprimere non solo la mia ammirazione per il Rosi regista e intellettuale ma soprattutto la mia stima per il Rosi uomo. Dopo la presentazione de La tregua alla Filmhouse di Edimburgo, accolta con grande emozione dal pubblico, Rosi chiese al direttore dell’Istituto di Cultura di cancellare la sua presenza alla presentazione a Londra il giorno dopo perché si era trovato bene a Edimburgo e voleva approfondire la sua conoscenza delle persone che aveva conosciuto qui (gli avevo presentato tutti i miei colleghi della School of European Film Studies). Ovviamente si arrese agli impegni già presi ma questo simpatico aneddoto spiega la sua cordiale disponibilità nei rapporti con la gente.

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