Ilaria Palomba
Tra finzione e realtà

Baratro krokodil

In «Krokodil» la scrittrice e giornalista russa Marina Achmedova racconta un fenomeni inquietante: la diffusione di una droga che uccide in fretta e senza scampo

Krokodil di Marina Achmedova (Meridianzo Zero, 2014, pp. 286, 16 euro), è un romanzo sulla tossicodipendenza da desomorfina, nato da un reportage che l’autrice ha fatto nel 2012 per la rivista russa Russkij Reporter e in seguito bandito e condannato con l’accusa di promozione di narcotici, per poi essere ripubblicato dalla rivista internazionale OpenDemocracy e suscitare grande scalpore. In appendice, alla fine del romanzo, è riportato il reportage da cui tutto ha preso vita. La diffusione del krokodil non riguarda solo la Russia e non solo i paesi più poveri: i casi aumentano costantemente anche in Europa e America. Conoscendo quanto sia alta la diffusione delle sostanze e quanto aumenti giorno per giorno, proprio a causa dell’impoverimento economico e spirituale dell’occidente, non è difficile pensare che tra breve questa sostanza mortale possa sostituire i classici oppiacei, in primo luogo poiché non bisogna comprarla illegalmente ma può essere preparata chimicamente a partire da composti e farmaci facilmente reperibili in farmacia.

Il romanzo narra la storia di 4 ragazzi: Jaga, sua sorella Sveta, Misa e Anjuta, delle loro angoscianti e ripetitive giornate, il cui centro è il rito della preparazione del krokodil; delle loro speranze perdute, dei loro amori impossibili, delle loro malattie terminali e mortali: HIV e tubercolosi, dei loro aborti, della loro disperazione, fino all’Ultimo viaggio.

Affrontato con piglio giornalistico, il romanzo è contraddistinto da una potente voce narrante, alla stregua dei grandi romanzieri russi, la drammaturgia fa da sfondo ma non prevede alcuna redenzione, la fedeltà quasi naturalistica al reale e la lucida spietatezza nelle descrizioni sono la vera forza di questo libro, che come i più importanti romanzi di tutti i tempi, non necessitano di grandi trame o eccessivi surplus di fiction per funzionare. Per prima cosa bisogna essere disposti a passare un confine, poiché l’autrice ci porta proprio nel vivo di una delle più dannate e angosciose condizioni umane. La desomorfina è chiamata in gergo krokodil perché divora l’epidermide rendendola simile a quella di un rettile: come detto, è una sostanza che non si vende sul mercato illecito ma viene preparata in casa usando medicinali che si possono acquistare legalmente. Chi comincia a usarla è condannato a morte certa entro un anno e solitamente ne è consapevole, chi si fa di krokodil in linea di massima è già tossicodipendente ma non ha i soldi per permettersi l’eroina; chi si fa di krokodil è giunto ormai al termine della propria esistenza.

Quel che colpisce in questo libro è la tenerezza, nonostante il degrado descritto minuziosamente nei suoi aspetti più fisici e raccapriccianti, e l’umanità con cui vengono mostrati questi personaggi, in particolare, fa molta tenerezza il rapporto tra Jaga e sua sorella Sveta, che in qualche modo cercano di proteggersi l’un l’altra pur sapendo di essere, insieme, in un buco nero senza via d’uscita.

krokodil libro– Non esiste, l’amore, Sveta – attaccò Jaga tossendo – Khh… Khh… Non esiste nel mondo l’amore – chiosò, chiuse gli occhi e si abbandonò con la testa sul cuscino.

Sveta si avvicinò e si sedette sul letto accanto. Da lì si mise a guardare Jaga, tenendo il sacchetto tra le ginocchia.

– Mangia il pane alla ricotta finché è caldo – disse.

– Se sapevo che i giorni migliori della mia vita, che ricorderò per sempre, sono quando stavamo sul divano a guardare la TV con la mamma e il papà, non mi sarei umiliata tanto in vita mia con quelle teste di cazzo. In vita mia… – ripeté Jaga tetra.

L’autrice alterna linguaggio basso e realistico, nei dialoghi, ad alte riflessioni filosofiche sulla vita, la morte, la fede, l’amore e la sua assenza. La domanda che ricorre per tutto il romanzo, di cui s’intravedono tracce anche nel reportage in appendice, è: perché il serpente è andato da Eva? Non ci saranno risposte se non nel momento dell’incontro con il nulla.

L’ Achmedova ci spinge in fondo al baratro che vivono questi ragazzi senza futuro, senza speranze, senza più sogni, se non quello di sentirsi come gli altri, perché arriva un punto in cui la “botta” non dà più nessuno “sballo”, ci si fa solo per sentirsi come gli altri, per illudersi di avere ancora voglia di vivere, per non provare troppo dolore, quel dolore cui molto probabilmente nessuno ha mai voluto prestare ascolto. Il covo, che è sia un nome dato ai luoghi in cui ci si riunisce per farsi, sia un modo per riconoscersi come gruppo, affronta momenti di estrema isteria così come momenti di reciproca compassione. I genitori, eterni assenti, non possono far altro che ammazzarsi di lavoro per far sopravvivere i figli tossici e sieropositivi, o morire di dolore loro stessi. La ricerca disperata dell’amore torna sempre come assenza, una speranza destinata a venire infranta mille volte, poiché nei rapporti, anche tra coloro che condividono la stessa tossicodipendenza e la stessa sieropositività, sembra non ci sia altro orizzonte che la rabbia e la continua recriminazione, come se l’altro fosse uno specchio del sé e si volesse dunque, umiliandolo, umiliare se stessi per quel che si è diventati, così tra Jaga e il suo Misa, così tra Sveta e l’uomo che avrebbe voluto sposare. E nonostante tutto Jaga, fino all’Ultimo viaggio, resta un personaggio positivo, con una sorta di candore infantile, se pur nell’inferno che si è scelta come vita, c’è in lei una sorta di cinismo e sarcastica superiorità, propria di chi si è sempre dato da fare per tutti, ma anche un qualcosa di simile alla fede, una fede nei miracoli, come il miracolo che spera possa salvarla da quel nulla che l’attende alla fine del viaggio.

– Il serpente è esistito sempre. Ha dato la mela a Eva per fargliela mangiare tutta e farle capire che nel mondo non c’è amore. Ma lei non l’ha finita, la mela. Doveva mangiarla tutta, insieme al torsolo e ai semi. Non è semplicemente una mela, è tutto – disse Jaga; poi sollevò il dito e rimase in silenzio. 

Facebooktwitterlinkedin