Domenico Calcaterra
Un libro da collezione di Nottetempo

Moresco e l’anitra

In un piccolo libro illustrato da Giuliano Della Casa, Antonio Moresco rivolge “21 preghierine per una nuova vita” ai suoi amici animali. Mettendo a nudo le sue aspirazioni e le sue paure

Sembrano riguadagnare favore da parte del pubblico libri curiosi, veri e propri oggetti d’arte, che sanno far dialogare disegno e scrittura, illustrazione e prosa narrativa. Penso, per dirne una, agli esercizi di paezoologia del Franco Arminio del Topo sognatore e altri animali di paese (con i disegni di Simone Massi) in cui, nell’ottica di un ribaltato senso di pietà, gli animali raccontano di sé per dire del destino di solitudine e spaesamento dell’uomo contemporaneo.

A piacevole conferma di una simile tendenza esce adesso per Nottetempo, in tiratura limitata (230 copie firmate dall’autore), 21 preghierine per una nuova vita, un delizioso libretto da collezione, frutto della non inedita collaborazione tra un pittore vitale e spontaneo come il modenese Giuliano Della Casa e quello che da molti viene considerato il solitario gigante degli ultimi vent’anni di narrativa italiana, Antonio Moresco. Protagonisti sono ancora gli animali, qui illustrati appunto da Della Casa, e ai quali lo scrittore ha pensato di rivolgere delle piccole preghiere che abbiano a che fare con la sua particolare condizione di uomo e di autore. È indubbio che, nell’evidente clima da divertissement dal quale scaturiscono, le preghierine siano da leggere piuttosto come quadri d’evasione, autentiche vie di fuga («a sognare insieme un altro mondo e un’altra vita»). Sin dal titolo, è infatti contenuto il rimando al desiderio (giocoso) di una “nuova vita”, da auspicare e inseguire. Moresco mette a confronto la sua vita con quella degli animali, innalzati ad esemplari maestri da imitare, «in questi tempi che sembrano senza speranza».

21 preghierine per una nuova vitaMa la domanda che s’impone, man mano che ci si inoltra nella lettura di «questa cosa piena di bellezza, allegria e di profonda tristezza» (così lo stesso Moresco nella Nota di presentazione), non può essere che questa: cosa questi svagati esercizi di fantasia consentono di rilevare in chiave di proiezione autobiografica? Cosa, insomma, ci dicono dell’animale Moresco? Singolare è intanto come, nelle “preghierine”, la somma delle aspirazioni e il destino intellettuale dello scrittore finiscano per sovrapporsi, fino a coincidere, espresse sempre in icastiche invocazioni. Qualche esempio? Alla Rana non può che chiedere d’insegnargli il suo «vivere anfibio nei due regni della vita e della morte»; così come al Pesce di «rimanere sospeso tra cielo e mare e tra spazio e tempo e tra vita e morte». E, variante di un consimile destino, analoga è la supplica rivolta alle Mosche: «Insegnate anche a me a scomparire e apparire, a non esserci e a esserci, a morire e risorgere». Mentre alle Lucciole, a mo’ di promemoria di quella che si è oramai imposta come concentrata icona della sua disposizione ancor prima che alla letteratura al sentimento della vita, con timido orgoglio conferma: «Anch’io continuo a far balenare la mia lucina nel buio». Le prose, ciò si vuol significare, diventano così per lui occasione di un candido monologante ragionare intorno all’utopia che noi lettori abbiamo imparato a frequentare, in presa diretta, nelle sue ultime prove (La lucina e Favola d’amore).

Parla dunque a se stesso e di se stesso: allo «scrittore inventato» che non chiede altro che di stare ancora un po’ come «cosa inventata dentro la vita inventata»; di vivere, perciò, anche al di là, «nella vita inventata e increata». Nell’imparare la difficile arte di stare a metà, sospesi, Antonio Moresco non può che elogiare lo stile dell’anitra (l’animale che ama su tutti), capace di scivolare, senza far rumore, «sul filo dello spazio e del tempo»: da tradurre non già, come vuole La Capria, nel dettato di uno scrivere che celi lo sforzo e si mostri naturale, ma nella decisiva disposizione verso una silenziosa vicinanza/distanza al mondo e dal mondo.

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