Gloria Aura Bortolini
Tra impegno e comunicazione

«Cercasi artivisti»

Metà artisti e metà attivisti: è il credo di Erik Ravelo, autore delle campagne sociali di Fabrica. «Con i miei messaggi voglio stimolare le persone a essere migliori. Questo è il mio obiettivo».

Le sue campagne fanno il giro del mondo, scuotono e provocano facendo arrabbiare anche i poteri alti. Come la campagna “Unhate” che ritrae il Papa ed i più importanti Capi di Stato nell’atto di baciare un altro leader. Pluripremiata con i più importanti riconoscimenti mondiali della pubblicità, tra cui il Grand Prix Press a Cannes ed il Clio Award a New York. Los intocables, che si è aggiudicato l’argento agli Epica Awards 2014, denuncia la violenza sui minori con una sintesi iconografica che non lascia spazio all’indifferenza. Il creatore di queste campagne è Erik Ravelo, 36 anni, artista cubano, dal 2008 autore delle campagne sociali di Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton Group. In occasione della Giornata internazionale dell’ONU contro la violenza sulle donne, Ravelo ha lanciato una nuova campagna a supporto di UN Women, l’agenzia delle Nazioni Unite nata per promuovere l’eguaglianza tra i sessi e l’emancipazione femminile. Si compone di una foto ed un video che, con immagini poetiche ed anticonvenzionali, denunciano la cultura della violenza, affermando l’uguaglianza tra uomini e donne (visibile sul sito benettongroup.com)

Qual è stato il tuo percorso nel mondo dell’arte e della comunicazione?

A Cuba ho studiato Belle Arti presso l’Accademia nazionale San Alejandro de L’Avana, la più antica in America Latina. Poi a diciotto anni sono andato in Argentina, dove ho lavorato nell’agenzia di comunicazione Agulla&Baccetti. Lì, sono entrato in contatto con la comunicazione contemporanea, la grafica, il design, internet. Questo mi ha aperto un mondo che a Cuba non avevo mai conosciuto e ha cambiato radicalmente il mio modo di pensare e di intendere l’arte.

erik ravelo3Come sei arrivato a Fabrica?

Quando io ero in Argentina, Fabrica stava vivendo il suo boom tra il 1998 ed il 2000 circa. Era conosciuta in tutto il mondo. Uno dei miei capi era stato a Fabrica come studente e mi consigliò di tentare. Mandai il mio portfolio e mi accettarono.  Questo mi ha cambiato la vita.

Sei entrato come studente e oggi sei il direttore creativo del dipartimento di visual communication e social campaigns…

Fabrica mi ha dato la possibilità di crescere molto e di fare carriera rapidamente. Prima come direttore della rivista Colors, fino al 2011. Poi sono passato al dipartimento che dirigo oggi. Mi interessano i contenuti sociali e Benetton ha sempre avuto nel suo DNA la comunicazione sociale.  Quindi posso dire che qui ho trovato un contesto ideale per sviluppare la mia arte nella direzione che desideravo.

Rispetto agli anni di Oliviero Toscani, che impronta ha preso la comunicazione di Benetton sotto la tua direzione?

Sono un riflesso della contemporaneità, di una generazione legata al web, ai social media, instagram, facebook… Mi ispiro a Toscani ma sono più vicino ai giovani ventenni che usano  lo smartphone e il computer. La mia arte non è pensata per finire su una rivista ma piuttosto sul web. Questo è ciò che mi differenzia maggiormente dai miei predecessori. Le campagne Unhate e Los intocables hanno avuto molto successo sul web, con un post abbiamo raggiunto il picco di un milione e mezzo di “mi piace” e 700 mila condivisioni. Questi numeri ti fanno capire che il messaggio è arrivato e ti rendono molto orgoglioso di aver divulgato dei valori importanti, in difesa dell’infanzia nel caso de Los intocables per esempio. Internet è uno strumento meritocratico, diventa virale se alla gente piace, non ci sono scorciatoie.

Qual è la formula per creare una campagna di successo?

Sono un cacciatore di stelle, mi piace cercare le cose che luccicano e che attirano la mia attenzione. Penso molto al concetto. Quindi prima viene l’idea e successivamente la forma che dev’essere funzionale al progetto ideato. Io sto focalizzando la mia ricerca su contenuti che abbiano un DNA sociale, e cerco di comunicare utilizzando strumenti diversi.

Quali sono i valori che si riflettono nelle tue opere?

Mi considero una persona moralmente integra e quindi cerco di fare un’arte che migliori l’essere umano, le condizioni in cui viviamo. Il mio interesse è verso l’arte come strumento per migliorare le cose. L’ arte fine a se stessa non mi stimola. La rispetto, ma io cerco altro. Mi piace concepire le cose come “artivismo”: un artista-attivista che ha un ruolo positivo nella società, che si batte per cambiare le cose in meglio. La comunicazione può essere a volte molto più efficace di una poesia o di una canzone. Ho avuto l’opportunità, un paio di volte, di capire la portata della sua potenza e mi sono innamorato di quella sensazione. La pubblicità ti fa sentire felice perché consumi, ma penso che ti possa far sentire importante anche perché difendi certi valori. Con i miei messaggi, voglio stimolare le persone a essere migliori. Questo è il mio obiettivo.

Qual è il progetto di cui vai più fiero?

Los intocables è il più riuscito da un punto di vista di sintesi visiva.  Nel mio lavoro è molto difficile concepire una cosa forte che sia semplice e che non abbia bisogno di parole. Con Los intocables non ho trovato nessuna persona che vedendolo non abbia capito cosa fosse e soprattutto che non si sia indignata. Quando riesco a far reagire le persone davanti alle mie opere, mi fa sentire capace di scuotere il mondo. Trovo un senso  alla mia esistenza, perché posso fare qualcosa per il mondo, anzi ho la responsabilità di farlo.

(clicca per vedere la nuova campagna di sostegno a UN Women)

La tua campagna Unhate ha vinto un Grand Prix. Era da 29 anni che l’Italia non prendeva più questo premio. Come ci si sente a ricevere il riconoscimento più importante per un pubblicitario a soli 30 anni?

Non ho mai pensato al successo, per me è stata una scoperta, come fosse un gioco. Continuo con umiltà, con l’incoscienza di un fanciullo. Solo così la magia ti visita. Penso di essere ancora all’inizio del processo, ma è un gioco ancora divertente, non mi sono stancato di provarci e di sbagliare finché non trovo l’idea giusta. Sono molto determinato a seguire questo cammino e curioso di vedere cosa riuscirò ancora a fare.

Dietro questi successi c’è un lavoro molto complesso di ricerca, sperimentazione ed esecuzione. Qual è l’aspetto più delicato nel processo creativo?

Gestire la frustrazione. Questo è un lavoro che solo le persone che riescono a gestire la frustrazione possono fare. Presenti dieci idee che ti piacciono molto e spesso viene scelta quella che ti sembra più debole. Ma quando lavori con altre persone devi imparare ad accettarlo e non viverlo come una delusione o una sconfitta personale.

erik ravelo2Fabrica oggi?

Credo sia un gioiello, una rarità. È soprattutto un’opportunità per chi non può andare all’università. Molti “fabricanti” provengono da paesi disagiati. È come una partita di calcio epica, impossibile da vincere ed invece la vittoria arriva. Penso che Fabrica non sia nemmeno ben capita. È una realtà molto diversa, con un valore enorme. Io sono in contatto con le migliori agenzie di comunicazione del mondo, fanno delle pubblicità incredibili ma Fabrica è molto più interessante per me. È un centro di ricerca e quello che esce da qui ha una risonanza mondiale. Quando abbiamo fatto la campagna con i baci dei presidenti, fino a quel momento non c’era stata nessuna pubblicità al mondo che avesse avuto cosi tanti headlines e tweets in pochi giorni. Con quella campagna abbiamo avuto il coraggio di rappresentare il Papa che bacia un altro uomo perché volevamo parlare della violenza ma anche dell’omosessualità. Quindi credo che Fabrica abbia una funzione molto nobile e rispettabile. È un ente di comunicazione unico al mondo. Non c’è un altro posto cosi.

Come coesiste una realtà internazionale come Fabrica in una piccola città di provincia come Treviso?

È come un monastero. Se fosse a Milano, New York, Londra non sarebbe lo stesso. Il fatto che sia stata creata nel luogo di origine del fondatore, Luciano Benetton, in un territorio a cui lui è molto legato, questo significa molto per chi viene da lontano. Molti ragazzi non sanno nemmeno dove si colloca sulla cartina geografica. È un ambiente che ti costringe a concentrarti perché lì non sopravvive nessuno se non ama quello che fa. Tra l’inverno, il freddo, la nebbia, la campagna isolata…o ami tanto quello che fai o non ce la fai. A me comunque dopo tanti anni continua a piacere. Vado in bicicletta e mi fermo al tramonto davanti ad un campo di grano con pennellate di papaveri rossi. Lì trovo bellezza. Dalle finestre vediamo le Dolomiti imbiancate. Quindi ha senso che Fabrica sia lì. È un posto per monaci, per persone che hanno passione.

Tu vieni dall’estero e hai fatto carriera in Italia. Cosa pensi invece della fuga degli italiani all’estero?

C’è stato un momento in cui i più bravi se ne andavano a New York, Londra, sembrava quasi una moda andarsene dall’Italia. Anch’io ho ricevuto offerte di lavoro allettanti dalle varie agenzie del mondo però ho deciso che non me ne sarei andato. Ho guardato la realtà delle cose e non c’è bisogno di scappare. Voglio difendere questo posto, avere successo da qui senza dover per forza scappare all’estero. Se ogni volta che un talento italiano se ne va, cosa rimane? Per me decidere di rimanere qui è stato anche un omaggio  all’accoglienza che ho ricevuto da questo Paese.

Ti piacerebbe fare qualcosa per il tuo paese, Cuba?

Un giorno certamente si, ma la mia realtà non è più Cuba e gli Stati Uniti… la mia mente grazie a Fabrica è diventata globalizzata, ora penso all’Africa, alla Cina, a quei problemi gravi, come la malnutrizione, che a Cuba non ci sono. Sono diventato obiettivo e non mi sembra che a Cuba ci siano cosi tanti problemi, c’è la dittatura e i dissidenti in galera, non c’è liberta d’espressione ma i bambini non muoiono di fame. Quindi prima vorrei focalizzare i miei sforzi per combattere i problemi più gravi. Poi ho perso un po’ il legame con Cuba, sono partito nel ‘97 e non conosco bene la realtà d’oggi.

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