Domenico Calcaterra
Regali di Natale

Autoritratto del ‘900

Andate a rileggere "Tre croci" di Federigo Tozzi: nella storia dell'autodistruzione (inspiegabile) di tre fratelli c'è la metafora di un paese in crisi d'identità. Cento anni fa

Il destino di un autore come Federigo Tozzi, lo ricordava in Tozzi moderno Luigi Baldacci, sta forse in un azzeccato e spiritoso titolo apparso tempo fa in un articolo dedicato allo scrittore senese su «Tuttolibri»: «Aspettando di esser letto è diventato un classico». Infatti, di contro alla vitalità del dibattito critico su questo sorprendente autore nel corso del Novecento (che basta da solo a segnalarne, in maniera inequivocabile, la grandezza), non gli ha arriso la meritata fortuna presso il pubblico dei lettori, propensi piuttosto a pensare a Tozzi come un autore di serie B, un minore a spanne di distanza dai più quotati nel canone letterario del Novecento italiano.

La tentazione, a riprendere oggi in mano i suoi libri, è (come suggeriva Baldacci) di «azzerare il discorso», di leggerli «senza prevenzioni» di sorta. Si è molto ragionato, e non a torto, sul mondo chiuso, l’humus dal quale scaturisce la biologia elementare, l’universo “bestiale” della narrativa tozziana, poco o affatto, invece, sui possibili risvolti diciamo così antropologici e morali cui la sua opera può rimandare, se letta in chiave di autobiografia della nazione, mirando a quanto riesce a rivelarci non soltanto sulla società italiana primonovecentesca, ma sulla società italiana di ieri, di oggi e (ahinoi, forse) anche di domani. Ciò vale soprattutto per un «libro moralmente alto e artisticamente puro» (così l’amico Borgese in Tempo di edificare) come Tre croci (1920), l’ultimo romanzo pubblicato poco prima di morire (e con i proventi del quale lo scrittore sperava di potersi permettere l’acquisto di una motocicletta).

federigo tozzi tre crociLa storia è una storia semplice e tremenda al tempo stesso che riprende la triste vicenda occorsa ai fratelli Torrini (nel romanzo divenuti fratelli Gambi), titolari di una nota libreria antiquaria e di una legatoria nel centro storico di Siena, della quale lo stesso Tozzi era stato, negli anni di Castagneto (1908-1914), assiduo frequentatore. Tozzi mette in romanzo l’epilogo del loro tracollo finanziario e della tragica fine dei tre fratelli. Prossimi al fallimento, rifiutano di assumersi le proprie responsabilità di fronte agli impegni da onorare e si abbandonano a un incomprensibile ed autodistruttivo edonismo che si manifesta in maniera particolare nel loro compulsivo star dietro ai piaceri della gola («Perché io, da qui in avanti, più che ci si avvicina all’abisso, voglio mangiare e bere soltanto!» – così Niccolò). Scoperto l’imbroglio della falsificazione di una ulteriore cambiale che avrebbe loro consentito, con il raggiro, di rimanere ancora a galla, tutto precipita: Giulio (il più responsabile) si suicida impiccandosi all’interno della libreria, Niccolò muore in casa consumato dall’apoplessia, mentre Enrico, che era stato allontanato dalla casa di famiglia, morirà poco dopo, solo, in un ospizio di mendicità. Alle nipoti Lola e Chiarina, deceduto anche l’ultimo dei fratelli Gambi, non rimarrà che acquistare tre croci eguali per metterle al Laterino, il cimitero cittadino dove gli zii sono stati sepolti. Si potrà qui appena accennare a come la cambiale funzioni, per i personaggi dell’universo tozziano, quasi da correlativo-oggettivo della rovina materiale, di quel naufragio esistenziale figlio di una radicale incapacità di stare ben saldi dentro la realtà: così è per i fratelli Gambi o anche per il Remigio de Il podere (non è un caso che i due romanzi furono scritti a distanza ravvicinata l’uno dall’altro).

Estremamente lineare nel descrivere senza indugi l’incombere e il concretizzarsi della rovina dei protagonisti, l’asettico e cristallino dettato di Tre croci – placatasi la tempesta della Grande Guerra (e la connessa sbornia, tra vitalismo e naufragio esistenziale) –, mostra un Tozzi disposto a ridare credito a una narrazione dal respiro solo in apparenza più tradizionale. Viene meno, nel trasporre in romanzo l’ennesima pagina di vita, quella «irruenza di primavera creatrice» (così ancora il Borgese) che si avvertiva in Con gli occhi chiusi. Tutto è misurato, preciso, riesce d’inesorabile esattezza: nulla v’è perciò di superfluo o traboccante nel dipanare una storia di così cristallina bellezza e sconcertante verità (in ciò la modernità stilistica che lo pone tra i vertici del romanzo primonovecentesco). E stupisce ancor più se si pensa che Tozzi scrisse il romanzo nel giro breve di appena due settimane, tra l’ottobre e il novembre del 1918.

federigo tozziSi diceva in apertura di come lo scrittore senese sia stato oggetto di una continua e operosa messa a fuoco da parte dei suoi interpreti: salutato prima come restauratore di una visione naturalista ed obiettiva del racconto della realtà (Borgese); successivamente riconosciuto come l’esatto opposto, secondo la felice formuletta debenedettiana per cui Tozzi narra «perché non sa spiegare»; oppure se ne è sottolineata la formazione da autodidatta e di come non si possa parlare, per lui, di vera e propria ideologia (così Baldacci che legge il suo cattolicesimo come tutto sotterraneo, «senza una seconda vita», quasi che non senta la necessità di esplicitarla nelle sue opere).

È vero poi che la lettura in chiave psicanalitica dell’archetipica conflittualità padre/figlio, messa per primo in rilievo da Debenedetti ne Il romanzo italiano del Novecento (tanto per il Podere che per Tre croci), e che sfocia nell’annientamento della figura paterna attraverso la dilapidazione del patrimonio familiare, della roba di verghiana memoria, ha mirabilmente giovato a strappare la sua opera dalla nicchia di un angusto e ingannevole regionalismo, per ricondurla nel più complesso quadro della migliore letteratura europea del Novecento.

Ma ci pare altrettanto vero che, proprio attraverso una più attenta rilettura di Tre croci, si può comprendere come l’autobiografismo che permea Con gli occhi chiusi e Il podere – sempre più attratto il Nostro dalla nebulosa sterminata dei «misteriosi» atti nostri – fosse destinato a verticalizzarsi, ad oggettivarsi in endemico dato culturale. Di qui all’autoritratto del carattere nazionale, a pensarci adesso, il passo è davvero brevissimo. E mentre nel Podere si palesano i vizi esteriori di una borghesia gretta e mascalzona (si pensi alla figura del chirurgo Umberto Bianconi oppure all’etica corrotta dell’avvocato Renzo Boschini che propone a Giulia di fornire falsa testimonianza), in Tre croci quella italianissima “infezione” la troviamo in maniera compiuta rappresentata (perché desunta ancora una volta da un’esperienza di vita, ma non più diretta) nella paradigmatica vicenda dei tre fratelli Gambi, schiavi di quel loro masochistico edonismo che li pone (in maniera irrimediabile) in totale rotta rispetto a un concreto e sano rapporto con il mondo e con la realtà che li circonda. E a rileggerlo adesso, a quasi un secolo di distanza, sembra poco o niente sia cambiato nella sostanza, stando alle recenti e recentissime pagine della nostra storia politica e culturale, alla scandalosa e dilagante abulica amoralità della nostra classe dirigente.

Come accadrà con Gli indifferenti (1929), straordinario romanzo d’esordio nel quale Alberto Moravia fu capace, senza peraltro farne mai diretto richiamo, di scorciare e restituire la temperatura e il clima psicologico e culturale dell’incipiente fascismo, similmente con Tre croci Federigo Tozzi, attraverso la vera storia dell’ingloriosa e tragica disfatta di una famiglia di librai, è riuscito a offrire un fulminante spaccato della condizione di immaturità/minorità della società italiana: come a dire che la condizione bloccata di edonistica rimozione dei fratelli Gambi si accampa a esemplare implicita narrazione della congenita inadeguatezza morale ed etica di noi italiani.

Anni fa in un suo saggio introduttivo a La macchina mondiale, il mai abbastanza rimpianto Enzo Siciliano definiva Paolo Volponi poeta della famiglia di Tozzi, del dimenticato Silvio D’Arzo, per quell’attitudine «a cogliere una torbidità propria dell’animo italiano, a metterla a contatto o in fusione con i misteri del presente». Credo sia questo il modo migliore di tornare ad accostarsi all’opera di un protagonista assoluto del Novecento come Federigo Tozzi.

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