Anna Camaiti Hostert
Americans: ritratti di altri italiani

Notizie dal disastro

«Fin qui le stagioni di crisi sembravano necessarie alla rinascita sociale; ora la crisi si annuncia permanente: non eccezione ma condizione del mondo». La prima di una serie di interviste a intellettuali che guardano all'Italia con occhi "americani" è a Alberto Abruzzese.

Chi sono The Americans di cui si parlerà su queste pagine? Sono tutti italiani, ma relativamente atipici per il costume del nostro paese.  Sono professori, imprenditori, giornalisti, registi, creativi etc. che con la loro professionalità e le loro passioni hanno cercato e cercano di ridefinire l’identità italiana ispirandosi però a principi più tipici delle società anglosassoni e in particolare di quella americana at large che a quelli del nostro paese. Sono infatti antiideologici, liberi di mente e di pensiero. E soprattutto trovano che l’essere al servizio dei partiti politici per avere successo sia immorale. A ispirarli viceversa sono sempre stati la passione, l’etica professionale e l’amore per il loro mestiere che guidano scelte di cui si prendono la responsabilità in prima persona. Parlare di loro e con loro in quest’epoca di conformismo e uniformità di vedute significa riportare in primo piano una caratteristica essenziale della dialettica democratica: la possibilità del conflitto ormai ridotto solo ad apparenti becchettamenti in manifestazioni televisive di pollai urlanti dove solo chi grida più forte vince. Può sembrare un paradosso che coloro che vengono chiamati The Americans ridefiniscano un nuovo modo di essere italiani. In realtà proprio il loro essere eccentrici rispetto ad un centro di mediocrità li rende diversi e un po’ stranieri in casa. Insomma parlare di loro significa parlare in un certo senso di outsiders anche se sono riusciti ad affermarsi e ad avere successo, ma anche mostrare la ricchezza di ingegni inutilizzati presenti nel nostro paese. L’anticonformismo delle loro vedute anticipa i tempi e gli eventi e si scontra con la banalità e povertà di vedute della maggioranza dei partecipanti al mondo della cultura e della comunicazione. Ciò li rende in un certo  senso invisibili ai più o li lascia in un cono d’ombra che non rende ragione delle novità di cui sono stati e sono portatori. Cominciamo con il professor Alberto Abruzzese

Alberto Abruzzese è mediologo e scrittore (con un romanzo: Anemia (1984), giornalista (Paese Sera, Rinascita, Espresso, il manifesto, gli Altri) e operatore culturale (eventi, convegni, seminari). A partire dai primi anni Settanta è stato docente di Sociologia della Comunicazione presso l’Università “Federico II” di Napoli, negli anni novanta ha  insegnato Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso l’Università “Sapienza” di Roma (dove è stato Preside della Facoltà di scienze della comunicazione) e infine ha concluso la sua vita accademica presso l’Università IULM di Milano, dove è stato Preside della Facoltà di Turismo, Culture e Territorio e pro-Rettore per le Relazioni Internazionali e l’Innovazione Tecnologica. I suoi campi di ricerca sono: comunicazione di massa, cinema, televisione e nuovi media, con un interesse particolare verso i cambiamenti sociali collegati all’uso diffuso dei media.

Tra le sue pubblicazioni: Forme estetiche e società di massa (1973), La Grande Scimmia (1979), Lo splendore della TV. Origini e destino del linguaggio audiovisivo (1995), Analfabeti di tutto il mondo uniamoci (1996), La Bellezza per te e per me (1998). L’industria culturale. Tracce e immagini di un privilegio (con Davide Borrelli 2000), Lessico della Comunicazione (2003), L’occhio di Joker (2006), Educare e comunicare. Spazi e azioni dei media (a cura, con R. Maragliano, Mondadori, 2008), Il crepuscolo dei barbari (Bevivino, 2011).

Professor Abruzzese nel 2013 lei ha scritto un piccolo pamphlet intitolato Napolitano dopo Napolitano edito da Cooper nel quale ha raccolto una serie di articoli pubblicati sul settimanale Gli Altri. In questo libricino lei lancia un grido di allarme per il futuro, anzi per l’assenza di futuro. Lei afferma che stiamo entrando «nella dimensione stabilmente incerta di una crisi permanente». Si deve dunque essere così pessimisti? E come si può sopravvivere in uno stato di crisi permanente?

giorgio napolitanoIl nodo da affrontare, il punto di vista da assumere non consiste nel fatto di essere più o meno pessimisti ma nella scelta di rinunciare ad ogni ottimismo della civiltà e della storia. Rinunciare ad ogni “principio speranza” del soggetto moderno: quello unico e assoluto del dio-padre, origine di tutte le cose; quello universale, ideologico, dello spirito santo; e infine quello umanissimo del figlio di dio e quindi del corpo sacrificale, della carne sofferente in cui alberga ogni singola persona. A dovere essere messa così tanto in discussione da dovere tacere è quindi quella soggettività dell’essere umano che – edificatasi nella lunga durata che va dal tempo antico greco-romano e dalle religioni giudaico-cristiane sino all’umanesimo e all’illuminismo – è stata messa definitivamente in forma dalla società moderna e dai suoi sistemi di potere economico-politico. Dunque la questione del presente non va posta come “assenza di futuro” ma come catastrofe dei valori e dispositivi del progresso. Nelle condizioni del presente si consuma il tempo lineare del passato e del futuro: delle tradizioni e di ogni loro pretesa di tradimento e traduzione. Durante l’intera storia della civiltà industriale e della cultura di massa, il pensiero della crisi s’è fondato sulla idea/progetto che essa fosse necessaria all’innovazione e che proprio la crisi fosse dunque il motore dello sviluppo moderno, delle strategie del capitalismo, delle sue forme di dominio sociale e delle sue ideologie. La crisi – in questo quadro affermativo, in questo uso dialettico del negativo – ha dunque fatto credere che l’incertezza sociale fosse sempre il derivato di un trapasso da un regime di senso ad un altro: contenesse una promessa, una attesa. Un avvenire. Ora la crisi si annuncia permanente: non eccezione ma condizione del mondo. Il quadro epocale – se di epoca si può ancora parlare essendo essa un dispositivo concettuale del tempo moderno – è così tragico proprio in virtù della sua dimensione “glocal” e cioè di un pianeta in cui si intrecciano territori caratterizzati ciascuno da un suo tempo (nazioni che ancora devono entrare in forme di progresso industriale e nazioni che sono attratte nelle spirali dell’impero post-industriale delle reti) e tutti insieme da un tempo “vuoto”. In questo quadro il territorio italiano può “dire molto” proprio in quanto nazione mai compita e coacervo di culture e religioni, di apici di sviluppo e baratri di sottosviluppo.

Lei parla «dell’urgenza di stimolare il pensiero in una direzione radicalmente anti-religiosa». E scrive «Il problema del pensiero laico in Europa e nel mondo è consistito nel non essere riuscito a liberarsi della tradizione religiosa che tanta parte ha avuto nella genesi del soggetto moderno. La laicità si è fatta essa stessa religiosa e la modernità è stata un continuo teatro di guerre di religione. Di poteri religiosamente conquistati». E più avanti «i conflitti sociali e umani …sono stati imbrigliati in ideologie identitarie che hanno voluto imporsi nella forma di simbologie teologiche di vincoli spirituali tesi a pretendere la loro universalità, il loro diritto di sovranità».  E allora come si fa in Italia a conquistare questa laicità del pensiero e della cultura? E che cosa pensa di questo papa?

La sovrapposizione tra forme di religione affidate alle chiese e forme di coesione sociale affidate agli stati o alle ideologie laiche è stata dimostrata da una cospicua letteratura storica e sociologica (Chiesa, Impero, Stato: socializzazione per autorità divina; socializzazione per patto sociale – l’idea moderna di sovranità è radicata in questo incastro tra il Dio e il Re). Oltre che sovrapposizione verificata nei fatti: in Italia il “cattocomunismo” – magari non più soltanto come eredità storica oppure scelta strategica e tattica, ma addirittura come costume mentale, abitudine o deriva culturale – ne è stata e continua ad essere una prova. In USA – come sappiamo – c’è qualcosa che si spiega bene con l’innesto tra protestantesimo e capitalismo. E via dicendo (la vocazione imperiale-religiosa del mondo non occidentale, ad esempio). Di papa Francesco penso che sia al cuore di una contraddizione insanabile: se dio si fa uomo è condannato alla croce. E se un uomo si condanna alla croce, non risuscita. Nel mio breve libricino affronto questa questione in relazione a Ratzinger. E che due papi così diversi convivano in uno stesso tempo e in uno stesso luogo la dice lunga sul fatto che le “chiese” – tutte le chiese – sono sempre più divise tra autorità e estinzione. Per un verso, eccessi di autorità, dunque vecchi e nuovi fondamentalismi. Per altro verso: eccessi di mondanizzazione, dunque la deriva dell’incertezza.

Lei scrive che l’anomalia della rielezione di Napolitano e la trasgressione di una regola, seppur convenzionale della nostra democrazia, fa riflettere su «un popolo cui è toccata una sovranità democratica tanto debole da dovere fare ricorso a una sovranità superiore» … A qualcosa che… «si avvicina al divino, cioè a una sorta di diritto della persona, di diritto di sangue». Parla anche della scelta proposta dai Cinque Stelle di eleggere come presidente Rodotà, scelta scartata dal PD perché troppo “laico” troppo poco “ideologico” Viste queste premesse il titolo del suo saggio Napolitano dopo Napolitano dunque che senso ha?

Nell’accettare di restare al Quirinale – ritenendo un atto di responsabilità la sua conferma a primo cittadino della nazione – Napolitano ha agito in perfetta “buona fede” (il buon comunista è assai peggio del cattivo comunista) e così ha di fatto sanzionato lo svuotamento delle tradizioni democratiche o meglio ne ha rivelato la falsa coscienza, il vuoto di verità che le ha originariamente fondate in quanto strategie di potere, appunto verità strumentali. Napolitano ha firmato di suo pugno la tragica coincidenza tra scomparsa e sopravvivenza della politica. Ha infatti dimostrato che non c’è modo di distinguere tra buona fede e cattiva fede. Così come tra buon governo e cattivo governo. Ha ammesso che la politica dei partiti e delle istituzioni è insieme necessaria e inutile.  E che il dispositivo globale della crisi finanziaria obbliga ad abiurare qualsiasi valore, a rinunciare a qualsiasi scelta che non sia nell’agenda millenaria dell’Occidente. Di Napolitano dico il suo stile istituzionale; la sua perfetta fusione tra burocrate di partito e burocrate di stato; la deriva presidenzialista, dovuta alla deriva populista dell’intero sistema dei partiti assai più che ad una consapevole volontà collettiva che si faccia popolo. Di Napolitano parlo a misura del patetico e insieme sconsiderato bisogno di rassicurazione che sta esprimendo l’Italia, anzi il suo popolo. Il suo popolo nel senso del suo “ventre”: l’Italia in quanto nazione non c’è, ma il grumo di istinti che lega i popoli italici in un insieme compattamente disomogeneo – sgraziato, privo di grazia e al tempo stesso eccellente – c’è e come!  Bisogno trivialmente “nazionale” di “tornare indietro”: tornare alla “monarchia” se non alla “dittatura”, per quanto in forme simboliche e pratiche morbide, adatte ad un paese edonista come il nostro, capace di violenza inaudita solo nelle sue sacche e fessure più profonde o nei suoi momenti di psicosi di gruppo o di massa. Bisogno inevitabile, forse, in una nazione effettivamente così poco moderna, fuori asse, priva cioè della cultura e pratica istituzionale di altre nazioni più avanzate, in grado ancora, grazie alla loro maturità, di resistere alla crisi delle proprie istituzioni e dei loro poteri a fronte della globalizzazione finanziaria del mondo. A sua volta ecco che Rodotà è l’altra faccia dell’intellettuale di sinistra, quella paradossalmente ancora più organica delle sinistre in Parlamento, ma per il fatto d’avere in sé una più fertile inclinazione dis-organica. Rodotà è figlio di una “democrazia minore” ovvero appartiene a quella democrazia che, magari più grande e autentica di quella ufficiale (o quelle ufficiali), è tuttavia destinata a fare da sfondo o da finestra o da soffitta o da alibi alla “democrazia reale” (così la possiamo chiamare – qui in Italia ma altrettanto in ogni dove – ricalcando il tono spregiativo che a suo tempo si è dato alla formula “comunismo reale”). Napolitano prigione dentro la forma partito, Rodotà prigione fuori del partito, ma rispetto al primo un poco più dentro la società civile (che tuttavia tanto deve all’immaginazione di partito). Rodotà è stato e resta il frutto di sviste di ogni genere, contro di lui (sicuramente) e a suo favore (spesso strumentalmente), in quanto  grande giurista capace di leggere alcuni fondamentali mutamenti dovuti alla nascita di una società delle reti sempre più meta-nazionale ovvero metamorfica: nulla – in particolare alcune sue riflessioni sul “corpo” in bilico tra trasparenza e schiavitù – che possa essere condiviso e magari anche soltanto compreso dalla follia o dalla infanzia mentale o semplice onestà degli infatuati da Grillo. Ma anche nulla che possa interessare la corruzione e il cinismo delle vecchie politiche. PD compreso, ovviamente. E lo stesso Rodotà è caduto vittima del peso di ideologie politiche ormai in dissoluzione (con tutti i significati possibili di questa parola). Vittima illustre, ma insieme raffinato artefice della falsa coscienza dei civilizzatori, e quindi dell’idea stessa di democrazia come forma di potere, come destino occidentale: unica effettiva “coscienza di classe” della società moderna.

silvio berlusconiLei provocatoriamente scrive che «l’accostamento tra berlusconismo e terrorismo funziona non tanto per la loro intenzione di sfruttare i media a proprio vantaggio, ma piuttosto per la condivisione di uno stesso impulso ‘al di là del bene e del male’. Di una stessa attrazione per un grado zero di civiltà». Inoltre accusa la sinistra di non avere saputo opporglisi nel mondo giusto, ma in modo confessionale, moralista. Arrivando a dire che il successo di Berlusconi dipende dall’opposizione che gli si è fatta. E affermando che la chiesa cattolica avrebbe fatto di meglio. «Il dio delle sinistre è debole. Penso ad alcune delle motivazioni addotte durante le campagne contro Berlusconi, alla tendenza di accusarlo sul piano dei suoi ‘vizi privati’ e cosa ancora più grave scegliendo, per non apparire moralisti, di farlo in nome della distinzione tra uomo pubblico e privato». E  ammettendo che la contromossa di Mc Luhan cioè quella di spegnere il medium non funzionerebbe auspica di lasciare invece questi replicanti umani «alla luce dei media di cui si alimentano» sperando che si faccia avanti «qualcuno dal buio delle persone, del mondo – senza grazia e speranza – che la civilizzazione ha segregato». E parla di un nuovo imperium. A cosa si riferisce?

Di Berlusconi avevo parlato in anticipo su tutti – posso dirlo – pubblicando proprio a caldo sulla sua prima clamorosa vittoria elettorale un libricino intitolato Elogio del tempo nuovo. Perché Berlusconi ha vinto (Costa&Nolan, 1994). E va ricordato che vari anni prima avevo pubblicato un altro libello politico, Il fantasma fracassone: PCI e politica della cultura (Lerici, 1982): scritto contro i contenuti e le forme delle strategie culturali della sinistra e segnatamente del PCI. Lei ha sintetizzato bene alcune delle mie tesi su Berlusconi. Per me la questione ruota intorno al rapporto conflittuale tra culture di regime e culture che sono restate storicamente escluse dalla “macchina del potere”.  Tra colti e incolti. Tra culture istituzionali e politiche della vita nazionale italiana e, di contro, culture dei consumi (sul versante della ricchezza così come sul versante della povertà, ingordi e affamati). L’ottusità e la cecità dei ceti organici ai partiti storici e alle istituzioni pubbliche (ma anche ai dispositivi di mediazione e conflitto tra società e imprese, tra politica e capitale) è stata clamorosa. Berlusconi veniva dal ventre degli analfabeti e dalla carne dei mercanti: la sua abilità è stata quella di sapere vestire l’abito del leader. Di occupare con il proprio corpo il vuoto sempre più profondo tra strumenti della politica e vita quotidiana. Tra potere e immaginario. Tra cultura e passioni. Burocrazia e desiderio. Ma Berlusconi è cresciuto nell’opinione pubblica grazie ai suoi contestatori.

matteo renziE ora, per certi aspetti la vicenda si ripete con Renzi (su di lui per il momento non posso che tacere, almeno sino a quando le critiche – al suo stile o alla sua sostanza – saranno a lui rivolte da chi sino ad ora e per ora ha eluso o fallito ogni obiettivo politico). Da questi leader non ci si poteva espettare e non ci si può aspettare che nasca una nuova classe dirigente. Il nuovo “imperium” – ovvero capacità di comando – cui mi riferisco non può che venire da un salto di qualità netto – immancabile e inflessibile – rispetto a tutte le parti oggi in conflitto (conflitti di sopravvivenza e certamente non di potere: non di quella forma di potenza che ha una sua sostanza prima di “prendere il potere”!): berlusconiani e antiberlusconiani, renziani e antirenziani, sinistra e destra. Tutti che si affollano al “centro” senza mostrare alcuna capacità di definire la centralità di un’epoca al tramonto, la visione di un fallimento storico, la consapevolezza di una condizione catastrofica del mondo.

Lei parla di «fine della politica», dice che l’Italia non ha più una classe dirigente. I Cinque Stelle rappresentano non solo il rifiuto della politica, addirittura la totale estraneità a essa, ma anche «il bacino umano da cui dovrebbe nascere una nuova capacità di amministrare la vita quotidiana, l’abitare, la collettività». Ma ci vorrà tempo perché si formino e diventino classe dirigente. Nel frattempo coloro che li accusano di non avere il know how non si accorgono che queste doti non esistono più da tempo perché sono venuti a mancare «gli apparati e gli strumenti che servono a realizzarle. In questione c’è la coscienza di classe dirigente». E di questa mancanza lei dà la responsabilità a tutti: partiti, università, formazione professionale. Scrive: «C’è stata almeno la consapevolezza che tutti gli strumenti di trasmissione del sapere – a partire dal libro, per dirne una… – stavano sempre più franando per restituire il senso del presente ad altre forme espressive?». E alla fine vede in Renzi, «l’unico capace di muoversi in questa nave in tempesta» che è l’Italia. E scrive: «Mi piacerebbe che lui, o qualcun altro, si mostrasse capace di lavorare su due tavoli del gioco. Quello della sopravvivenza immediata – cinico, brutale, corrotto e corruttibile – e quello inevitabilmente, oggettivamente opposto, di una sopravvivenza che sappia pensare la mortale crisi dei sistemi politici cercando qualcosa che la possa fare fruttare nell’interesse comune». Oggi a un anno da quelle parole la pensa sempre così su Renzi e sui Cinque Stelle?

beppe grilloIn parte ho già detto rispondendo alla domanda precedente. Questa sua domanda mi permette di toccare due punti che ritengo cruciali. Il primo punto: di fronte alla abusatissima formula “fine della politica” bisogna accettare l’idea che la politica di cui decretiamo la fine è quella dei sistemi moderni. Se ci diciamo addolorati di questa fine, allora finiamo per essere noi stessi complici del destino tardo-moderno (disuguaglianza, ingiustizia, guerre, barbarie, fame e morte). Dunque la formula “fine della politica” può essere condivisa solo dando ad essa un significato positivo. Il segno di una svolta. Al tempo stesso, sappiamo bene che la politica – in quanto quell’insieme di “arti” volte ad abitare il mondo – non potrà mai venire meno (almeno sino a quando ci sia un umano sulla terra). E se riteniamo che le ragioni dell’abitare sono all’insegna della volontà di sopravvivenza dunque della violenza del genere umano, questo vuole dire che la politica è un obbligo. Siamo costretti ad agire politicamente. Dunque l’unica scelta che possiamo assumere è essere consapevoli del fatto che la sola possibilità che ci è data è quella di porci dentro e insieme contro il sistema che ci governa e le azioni che ci obbliga a compiere. Insomma si tratta di rinunciare a compiacersi della nostra identità, al sentimento della partecipazione, al dispositivo dell’appartenenza, alla condivisione dei valori che si impongono nell’agire sociale. In una parola bisogna cercare di agire senza tuttavia credere nelle azioni che siamo costretti a compiere. In questo scarto soltanto, forse, si apre una qualche possibilità di frenare – smussare – la vocazione della politica al dolore, alla sofferenza e alla morte. Il secondo punto: il fallimento delle classi dirigenti (fallimento misurato anche rispetto agli obiettivi di un soggetto moderno convintamente prevaricatore e violento) ci dimostra che da decenni sono venute a mancare processi formativi adeguati ai clamorosi mutamenti della civiltà tardo-moderna e post-industriale. E ci dimostra quanto abbiano fallito in ogni loro scopo proprio i contenuti dell’umanesimo, quei contenuti che sono stati alla base del pensiero occidentale: etiche, estetiche, politiche. Nel mio libretto, trovate riportata una lettera aperta da me inviata a Giorgio Napolitano, retoricamente scritta in forma di preghiera acciocché, in quanto primo cittadino, si preoccupasse di salvare l’università italiana dal disastro in cui sta anzi è precipitata. Non ho avuto risposta alcuna. Per il ragionamento di cui sopra, si potrebbe essere felici che siano finalmente destinate a crollare istituzioni accademiche governate da un ordine disciplinare ispirato all’umanesimo e all’imperialismo globale. Ma chi non dovrebbe permettersi di mostrarsi sordo al problema è proprio un (post)comunista come Napolitano!

Lei afferma che la famiglia oggi senza referenti istituzionali e politici è teatro e culla di una disperazione e di una violenza delle moltitudini senza pari «che da dispositivo di sopravvivenza dell’animale si è fatto una forma, tutta particolare per potenza e durata riproduttiva, di civilizzazione e di religiosità. All’insegna della violenza. Protetta dalla Legge, interiorizzata alla maniera di un tabù anche quando in superficie sembra tradita e assente, essa assolve la sua natura di ponte tra sfera privata e sfera pubblica, e tra diritto civile e fede religiosa. Tra Stato e Chiesa». E ci parla della sua rappresentazione nei grandi media dell’immaginario collettivo, nelle serie televisive per arrivare a considerazioni politiche e socioculturali. «Qui la famiglia è il luogo in cui ogni legge viene meno a passioni spinte al di là del bene e del male. La famiglia tribale è causa di ogni delitto. Di ogni violenza che accresca il potere di chi la domina e se ne serve. Gli affetti più caldi e sinceri scorrono insieme al sangue delle vittime. Nei modi in cui vengono rappresentate la camorra e la mafia – corrispondano o meno alla realtà – domina la comprensione umana, umanissima dei legami e vincoli che vi trionfano, quando sia necessario rinsaldarli tanto quanto sia necessario reciderli. In questo senso la serie di Scorsese Boardwalk Empire è esemplare». Allora la famiglia è solo un dispositivo che serve a perpetrare certe forme di potere e di violenza, incluso quello mafioso, o è anche invece qualche cosa il cui distacco può aiutare i giovani a crescere diventando classe dirigente? Accanto ad una scuola che riprenda in mano la formazione dei suoi cittadini, (a cominciare dall’insegnamento, quando sono ancora piccoli, di diritti e soprattutto di doveri, quelli più elementari, in Italia oggi completamente disattesi, ignorati, e che una volta facevano parte dell’educazione civica) può costituire uno strumento essenziale della democrazia di questo paese?

Qui, dovrei aprire una parentesi troppo estesa. Provo a tracciare seppure rozzamente solo lo schema di un ragionamento che ritengo fondamentale per chi voglia “deragliare” dalla dimensione antropologica – tribale, comunitaria e infine societaria – che proprio attraverso la famiglia lega la tradizione premoderna alla tradizione moderna e contemporanea. Dai regimi del Sacro a quelli del Sacerdote, da quello dei Re sino a quello degli Stati, la famiglia è la cellula della riproduzione, l’apparato che garantisce la vita umana. La famiglia è il dispositivo di congiunzione tra la lunghissima fase di realizzazione dell’umano dalla dimensione di animale a quella di soggetto della civilizzazione del mondo. I sistemi moderni si sono costruiti attraverso processi di socializzazione garantiti su un asse fondamentale: famiglia, chiesa, scuola, lavoro. La lunga durata di questi processi ha via via mondanizzato ciascuno di questi dispositivi. Ha spezzato le linee di forza che li legava uno all’altro. La scuola è in via di disgregazione in quanto sopravanzata in efficacia e innovazione dai linguaggi relazionali delle reti (e dunque non credo che la scuola possa tornare ad essere un fattore di democrazia civile). La “famiglia aperta” di questi ultimi decenni ha visto corrodersi l’autorità genitoriale (per questo trovo sorprendente la nostalgia di funzioni paterne espresse da psicanalisti post-lacaniani come Recalcati), ma lascia tuttavia sopravvivere i valori morali e le pratiche affettive che la componevano: ad esempio amore e fedeltà. Rispetto a questo quadro a me pare che un pensiero divergente possa oggi esprimersi solo nella pornografia. Nell’esperienza porno c’è una forza originaria che si sottrae “naturalmente” alla cultura umanista.

Infine in cosa si sente americano e in cosa invece si sente lontano da quella società?

Mi sento americano – e mi sarebbe impossibile non sentirmi tale – esattamente per le stesse ragioni per cui credo che, nell’essere americani, si esprima la quintessenza di ciò che siamo in quanto civilizzati e civilizzatori. Infatti mi sento americano quando– con il mio corpo, la mia carne, la mia immaginazione, il mio desiderio – mi sento e mi riconosco dentro il soggetto moderno, dentro la sua/mia tragica volontà di potenza, la sua/mia terribile necessità di sopravvivenza. In una parola quando mi percepisco come violenza dell’essere umano in quanto tale. Come occidentale e imperialista nella mia carne e nel mio corpo. Quando sento che a questa violenza del mondo e di ogni sua cosa e persona – del vivente in ogni sua forma e grado – appartengono tutti i valori sociali: etiche, estetiche, politiche. Anche e soprattutto i valori che hanno preteso e pretendono di esserne l’antidoto, la cura. Nell’arco di vari decenni ho scritto libri sull’industria culturale di massa e sui media (dal cinema alla tv sino ai new media) continuando a pensare che Hollywood fosse la massima espressione della società moderna e dunque che, nelle figure e nelle forme dell’immaginario collettivo americano e quindi imperiale, vi fosse il senso della stessa civilizzazione e cioè la dimensione produttiva di un profondo conflitto – materiale e immateriale, reale e simbolico – tra potere e società civile. Questo mio punto di vista (orientato sulla lettura in particolare di Benjamin, Morin, McLuhan) ha retto sino a quando ho creduto che il problema delle politiche di sinistra fosse soltanto quello di non avere compreso sino in fondo la grammatica e sintassi dell’immaginario collettivo e dunque – schiacciato da una visione razionalista e strumentale del mondo in tutto equivalente a quella espressa dal proprio nemico storico, cioè dal sistema capitalista – fosse destinato a svolgere un ruolo sempre più subalterno rispetto ai regimi di potere che invece pretendeva di abbattere.  Poi, come ho detto prima, ho capito che – per stare alla dimensione reale del presente, segnata com’è da un rapidissimo transito dai linguaggi analogici ai linguaggi digitali e dalla società industriale di massa alla società post-industriale delle reti – ci vuole ben altro. Per superare lo statuto irriducibilmente disciplinare e autoritativo della sociologia moderna arrivando così a praticare un approccio davvero mediologico al mondo, il salto da compiere non può che essere traumatico per l’individuo inteso come singola persona e non come soggetto moderno.

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