Olivia Balzar
Racconti del Peccato/25

La zuppa

Lui la guardava senza capire cosa sarebbe successo di lì a poco, senza capire a cosa sua moglie stesse pensando. Lei sorrise, perché ormai aveva deciso che sarebbe arrivata dove la zuppa aveva fallito

Il fattore scatenante fu senza dubbio la zuppa. Tutto era nato da quella maledetta zuppa di cipolle. Anche se a pensarci bene non era stata la zuppa in sé, ma il modo in cui lui la stava mangiando. Succhiava il brodo con quelle labbra screpolate e sottili e si sbrodolava come i bambini o come i vecchi decrepiti. Lei era seduta di fronte a lui, con un piatto di insalata intatto davanti a sé. Le era passata la voglia di mangiare su quel tavolo di formica, tra quelle quattro mura di carta da parati ingiallita. Tutto intorno a lei puzzava di zuppa. Era sicura che, aprendo la finestra, anche il mondo fuori avrebbe avuto quell’odore. La mano destra del marito teneva in mano il cucchiaio che si immergeva nella zuppa e veniva avvicinato alla bocca. E lui succhiava con quel suono fastidioso, così fastidioso che sembrava l’unico suono in quella stanza che diventava sempre più piccola, calda e soffocante. Lui sembrava non curarsi affatto di lei. Aveva la testa china sul piatto. La guardava senza vederla da troppi anni. Ormai era in pensione e trascorreva la sua vita sul divano a bere lattine di birra che si accumulavano sul tavolino, per terra, ovunque. Tanto era lei a pulire e riordinare tutto. Era lei a fare la spesa, a preparare da mangiare, a stirare le camicie che lui sporcava di sugo, di birra e di zuppa. Lui pensava solo a mangiare. Si alzava da quel fottuto divano solo per pisciare, per aprire il frigo e gridare: “Doooooora! Stanno a fini’ le bbire”. Con due b e una sola r. Le bbire. Le sue fottute “bbire” e la sua fottuta zuppa di cipolle. La stessa che gli preparava ogni martedì da 30 anni. Lui prese una grossa cucchiaiata, la succhiò rumorosamente come al solito, ma ad un certo punto incominciò a tossire. Il suo viso era rosso. Tossiva. Le fece cenno con la mano di versargli dell’acqua. Lei rimase immobile. Lui tossiva, senza coprirsi la bocca con le mani, con residui di zuppa sul lato destro delle labbra e la pelle lucida sulla fronte. Era rosso bordeaux. Lei sperò che quella maledetta zuppa lo strozzasse. Avrebbe pulito tutto, disinfettato con l’amuchina e poi avrebbe chiamato l’ambulanza che avrebbe constatato il decesso, ma solo dopo aver fatto un bel bagno caldo. Per lavare via l’odore di zuppa. Lei rimase a guardarlo tossire. Tossiva e sputava qua e là, ma non stava morendo. La osservava con occhi cattivi. Si stava riprendendo.

–   Doooora! Versami l’acqua! Che cazzo stai a fare a lì? – gridava mentre tossiva.

Lei lo fece d’istinto. Prese la bottiglia d’acqua e gliene versò un po’ nel bicchiere. Lui trangugiò tutto con una tale foga che sgocciolò sulla tovaglia e sui pantaloni. Lei rimise il tappo alla bottiglia e tornò a fissare la sua insalata intatta. I pomodori erano troppo rossi e acquosi. Ebbe un conato di vomito che le sia accentuò quando il marito parlò:

–   Che cazzo stavi a fare? – brontolò con quella solita voce alta che scuoteva i muri – Volevi vedermi soffocare con questa zuppa che è pure sciapa? –

Lei lo guardò un’ultima volta negli occhi. La vecchiaia e l’alcool li avevano velati, ma erano stati belli un tempo. Ora si perdevano in quel faccione rosso e stupido. Sembrava regredito all’età della pietra e lei non si ricordava più l’ultima volta che lo aveva trovato bello. Forse una volta, o forse mai. Lei non disse niente e si alzò per prendere il sale. Lui riprese a mangiare la zuppa, borbottando frasi con la bocca piena. Lei prese il sale, mentre lui biascicava che si era bevuta il cervello e non era più neanche capace a fare una zuppa come si deve. Sempre a parlare con la bocca piena, lui, con l’espressione stupida e quel crocifisso che pendeva tra i peli bianchi di quel petto flaccido! La canottiera era da lavare, come al solito. Lei chiuse l’anta della dispensa, ma prima di voltarsi, le cadde l’occhio sulla serie di coltelli infilati nel basamento di legno marrone, regalo di nozze della cognata. Lei capì solo in quel momento che cosa doveva fare. Scelse il coltello con la lama più grande, quello con cui tagliava la carne cruda quando doveva preparare lo spezzatino e lo nascose dietro la schiena.

–   Doooooora! E’ tanto difficile trovare il sale? – borbottava intanto lui col tono di quando stava per perdere le staffe.

–   Arrivo, amore – rispose lei. Non lo chiamava amore da vent’anni, ma quella era un’occasione speciale. Lei gli si avvicinò mentre veniva squadrata da quegli occhi suini. Le sembrò per un attimo un grosso maiale seduto a mangiare una zuppa. Non era più suo marito, era una grossa bestia dal corpo flaccido.

–   Ecco il sale – disse lei cordiale. La mano che teneva il coltello sudava, eppure stringere quel manico di legno la faceva sentire immensa. Forte. A un passo dalla salvezza. Si immaginò mentre conficcava la lama nella carne, nel collo. Sangue arterioso. Lui che la implorava. Lei che continuava. Amore. Flash. Un grosso lurido maiale. Flash. Lui la guardava senza capire cosa sarebbe successo di lì a poco, senza capire a cosa sua moglie stesse pensando. Lei sorrise, perché ormai aveva deciso che sarebbe arrivata dove la zuppa aveva fallito. Invece lui si accorse che c’era qualcosa che non andava. Vide che lei stava nascondendo qualcosa dietro la schiena. Dovevo essere più veloce, pensò lei, mentre la vampata di calore che stava attraversando il suo corpo si trasformò in ghiaccio nelle vene.

–   Che cazzo hai dietro la schiena? – domandò l’uomo.

Un coltello. Un coltello perché voglio squartarti come fossi carne morta. Cuore a mille.

–   Un coltello – rispose lei mostrandoglielo con una naturalezza che non si aspettava di avere – per il pane – aggiunse abbozzando un sorriso che somigliava più a una ferita orizzontale sul volto.

Lui borbottò qualcosa e abbassò lo sguardo sulla zuppa. Sembrava convinto che fosse tutto a posto. Forse lo era davvero. Del resto lui pensava solo alla sua dannata zuppa. Lei tornò a sedersi di fronte a lui e, come se niente fosse, affondò il coltello nel pane. Il suo collo. Avrebbe voluto affondarlo nel suo collo, mentre succhiava quella maledetta zuppa. Voleva far cessare il suono di quelle labbra. L’avrebbe guardato morire lentamente, come lui l’aveva guardata vivere miseramente senza curarsi di nulla, se non di se stesso. Lei tagliò una fetta di pane e si costrinse a mangiarla. Doveva essere convincente. Se lui avesse sospettato di qualcosa, l’avrebbe uccisa con quelle grandi mani callose. Mors tua, vita mea, pensava mentre masticava la crosta croccante. La mollica era collosa. Pane vecchio. Lei inghiottì trattenendo un conato di vomito. Poi successe qualcosa. Lui finì la zuppa e ruttò. Era un rutto possente, di quelli che fanno i ragazzini per far arrabbiare i genitori. Ma lei notò che qualcosa era cambiato nei suoi occhi. Erano diventati piccoli e la sclera era gialla. Il suo naso si stava allargando sempre di più. Sto diventando pazza? Le dita tozze si rattrappirono sempre di più. Il suo naso era diventato grosso e rugoso con due narici enormi. Un porco. Ecco cosa stava diventando. Lei guardò le mani del marito diventare zoccoli. Sto diventando pazza…? I pochi capelli rimasti gli stavano cadendo in piccole ciocche, il collo si stava deformando e stava diventando enorme. La stoffa della canottiera era tirata al massimo. Di lì a poco si sarebbe strappata. L’uomo provò ad alzarsi dalla sedia, ma scivolò a terra. Lei guardava immobile suo marito trasformarsi in ciò che lei aveva sempre pensato che fosse. Sto impazzendo…? Un tanfo di trogolo pervase la stanza e coprì l’odore di zuppa. Ora era a quattro zampe, con gli zoccoli che ticchettavano sul marmo della stanza e si muoveva come un’anima in pena. Sgusciò fuori dai pantaloni in acetato che indossava. Rimasero sul pavimento. Lei era sicura stesse diventando pazza, eppure suo marito era davanti a lei, per terra, con la canottiera sporca di zuppa che si strappava ad ogni suo movimento e quel crocifisso d’oro che gli pendeva ancora dal collo deforme. Strillava. Strillava fortissimo. Emetteva un verso acuto e orribile che sembrava volerle trapanare le orecchie, più disperato di un grido umano.

–   Smettila! – esclamò lei indietreggiando, ma lui continuava e si muoveva tutto, scivolando e andando a sbattere contro i muri, come in un flipper impazzito. E la catenina d’oro tintinnava a scandire il momento, a far sembrare tutto così reale. Non sta accadendo solo nella mia testa vero?

Suo marito si era trasformato in un maiale e lei non credeva ai propri occhi. Lui cercava di parlarle, ma uscivano solo grugniti. Avrebbe voluto piangere, ma non sapeva come fare. Voleva uscire da quella pelle, ma ormai era diventata la sua. Oppure no. Forse quella trasformazione stava solo avvenendo nella sua testa. O forse lui non era mai stato umano davvero. Per un attimo, lei ebbe pietà per l’animale che aveva davanti a sé, che cercava di sfuggire al suo destino, strillando come una sirena. Non ebbe il coraggio di ucciderlo, ma poi pensò a chi era veramente: non si doveva fare ingannare dalle apparenze, così prese il coltello con cui stava tagliando il pane e si avvicinò a lui sempre di più, perfettamente conscia che nessuno avrebbe potuto condannarla per omicidio.

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Olivia BalzarOlivia Balzar è nata in Brasile da genitori italiani l’anno in cui ha esordito Bon Jovi. Tra il 2007 e il 2013 ha contribuito a diverse antologie per la Giulio Perrone Editore, compare ogni anno nell’Agenda del Poeta di Pagine e nel numero 23 della rivista Pastiche. Ha scritto tre libri: Pioggia di novembre (Libro Italiano Editore), Strana come gli angeli (Gruppo Albatros Il Filo) e Zucchero Filato (Ismeca Libri). Vive tra Roma e Milano.

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