Ella Baffoni
Un incontro su territorio e diritti

Terra di conflitti

Dietro l'etichetta di "Braccianti migranti" si cela un mondo di lavoro e privazioni, dove il peggio del latifondismo del passato si mescola al peggio dei conflitti etnici di oggi

Bello il titolo dell’intensa giornata di lavoro al Centro studi emigrazione di Roma, “Braccianti migranti”, storia e scienze sociali a confronto su agricoltura territorio e lavoro stagionale in un incontro organizzato da Michele Colucci e Mimmo Perrotta. Un colloquio a più voci su un tema in cui il sostantivo e l’aggettivo si scambiano le parti. Si parla di migranti che fanno i braccianti, ma anche di braccianti costretti a migrare. Di ieri, ma anche di oggi.

Le similitudini ci sono. Fino alla metà del novecento in Puglia, Calabria, Sicilia c’è la figura del mediatore, l’uomo che va in autunno o nelle fiere, a cercare braccia, fa firmare i contratti, a volte dai notati, e poi ripassa in primavera per fare le squadre di lavoro. A lui ci si rivolge per ogni questione sul lavoro, lui di norma distribuisce le paghe, se non ha già preso il suo 5 o 10%. Oggi si chiama caporale, con la stessa funzione dei capineri o dei capibianchi che passano tra le masserie abbandonate o tra le baraccopoli di migranti africani o nordeuropei. In più, oggi, la segregazione fisica e la barriera linguistica impongono al caporale un altro compito: la mediazione con il welfare, la sanità innanzitutto.

braccianti3Certo, ci sono le differenze: il bracciantato oggi è più spietato, più di rapina che nell’ottocento. Le tariffe sono infime, tenute basse anche dalla concorrenza interetnica. Gli africani non possono scendere sotto i 3 euro a cassone, i rumeni sono disposti ad accettare paghe più basse. Perché? Il viaggio di ritorno, per loro, è molto meno costoso e faticoso, e possono tornare quando vogliono, racconta il sociologo Mimmo Perrotta. Per gli africani all’impossibilità di tornare e di riaffrontare il viaggio per mare si somma il ricatto del permesso di soggiorno o lo status di profugo, aggravati dalla pesantezza di una legislazione crudele.

Non è sempre stato così. Da Andria a Cerignola e San Severo, il triangolo del Tavoliere è stato incubatore di conflitti e lotte, come racconta Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea (Ipsaic): il conflitto tra leghe contadine e blocco agrario è stato aperto e patente, tanto da convincere i badogliani nel 44 a una repressione senza pietà, guidata dai prefetti, per riprendere il controllo assoluto sul lavoro. Ancora nel ’67 in molti casolari non c’erano fornelli a gas, figurarsi frigoriferi. Il lavoro (e la mortalità) minorile era diffusissimo, come la compravendita (“l’ingaggio”) di pastorelli. Eppure si lottava. Nel 1920 – ricorda Piero Bevilacqua – i braccianti sindacalizzati erano 800.000, uno sciopero ne coinvolse un milione. E nel ’47 i braccianti ottennero “l’imponibile di manodopera”, una norma di legge che obbligava i contadini ad assumere una certa quantità di lavoratori per un certo numero di giornate, secondo le colture. Poi fu poi dichiarata incostituzionale, evviva la libertà d’impresa.

braccianti4Perché dai conflitti e dalle lotte del Novecento si passa oggi al giogo sui migranti? È cambiato il lavoro nelle campagne, certo. È cambiato il mondo degli scambi e il modo di coltivare, chimica e non solo. C’è, fortissimo, il peso di una grande distribuzione che fa il mercato, e il lavoro costa circa la metà, se non meno, che non negli anni ’50. Basta per darsi una ragione? Oggi, lo raccontano Mimmo Perrotta e Devi Sacchetto, le lotte ci sono, ma restano nascoste nella relazione caporale-lavoratore o, più raramente, in quella tra azienda e lavoratore. Il movimento nelle campagne si è esaurito negli anni ’50, con l’emigrazione in massa verso le fabbriche dove la richiesta di manodopera operaia era massiccia. Negli anni ’80 cominciano ad arrivare i lavoratori stranieri (Jerry Masslo fu ucciso nell’89); negli anni ’90 la liberalizzazione dei mercati agricoli espelle i contadini del sud del mondo e li porta nelle nostre campagne dove la filera produttiva aveva già subito un forte processo di trasformazione. Oggi, nota Michele Nani (Cnr), i braccianti non hanno né movimento né sindacato. E il lavoro si “etnicizza”: braccianti dell’est europeo e africani nelle campagne pugliesi, panjabi i mungitori in pianura padana e nel sud del Lazio, tunisini e rumeni nelle serre siciliane, con una forte presenza di donne che, soprattutto nei luoghi più isolati, sono spesso vittime di stupri e ricatti sessuali.

braccianti2La Puglia, e non solo: anche la Calabria (ne hanno parlato Oscar Greco, e Anna Mary Garrapa), la Pianura padana (Michele Nani e Vanessa Azzeruoli), la Sicilia (Francesco Di Bartolo e, insieme, Valeria Piro e Giuliana Sanò). Per il terzo settore ecco Arcangelo Maira, animatore dei volontari “Io ci sto” che insegnano italiano e fanno ciclofficina, diritto di parola e di movimento, e insieme creano un’atmosfera di incontro solidale e partecipato. Giovanni Mottura ha ricordato l’unità di braccianti e mezzadri negli anni ’50, stridente contrasto con l’oggi, la difficoltà di sentirsi classe.

Condizioni di lavoro pessime, nessuna sicurezza, sopravvivenza ai limiti: nessuno dei braccianti, fa notare il sociologo Enrico Pugliese, oggi si definisce così. Il lavoro nei campi è una sorta di non-lavoro di passaggio, si fa per accumulare qualche lira, ma non ci si sente lavoratori. Se si incontra nei campi un africano e gli si chiede che lavoro fa, la risposta sarà commerciante o sarto o pastore o pescatore, mai bracciante o contadino. Forse, la cosa semplice che è difficile fare sarebbe, nelle campagne, la regolarizzazione, l’affrancamento dal cottimo e dal caporale. Se il lavoro tornasse legale – sembra poco, sarebbe un mutamento epocale – varrebbe la pena, forse, essere braccianti. Coprotagonisti responsabili in un processo produttivo.

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