Alessandro Boschi
Visioni contromano

Guerra di classe

Non perdetevi "Class enemy” dello sloveno Rob Biĉek, un piccolo film esemplare sulla contrapposizione fra padri e figli. Dove tutti, alla fine, escono sconfitti

Class Enemy di Rob Biĉek è un film piccolo ma esemplare. Primo lungometraggio del giovane autore sloveno, Class Enemy affronta un argomento arduo, l’elaborazione di un suicidio in una classe di adolescenti. Di chi è la colpa se la giovane studentessa si è tolta la vita? Del professore nuovo, ovvio, che con i suoi metodi nazisti e intransigenti non ha saputo capirla, non ha saputo cogliere la sua debolezza, non ha saputo aiutarla. In verità il film prende il suicidio come un pretesto per affrontare la confusa solidarietà degli studenti e l’inadeguatezza degli educatori, preoccupati solo dal «saper prendere gli alunni per il verso giusto». Così ignorando le vere cause del loro disagio. La classe diventa un luogo di battaglia, dove «qualcosa deve cambiare prima o poi», dove la società, gli adulti, vengono giudicati «tutti marci e non c’è da meravigliarsi se siamo come siamo».

La suddivisione dei ruoli degli studenti è fin troppo paradigmatica ma serve bene al regista per scandire un racconto che si basa sulla contrapposizione tra il professore Robert, appena arrivato a sostituire la titolare della cattedra in procinto di partorire, e una classe abituata a metodi più indulgenti. Come dice uno dei genitori, «una volta loro temevano noi, oggi siamo noi a temere loro». Classe non solo scolastica, ma nella accezione più ampia del termine, come più ampia è l’accezione di «nemico di classe», che rimanda palesemente ai regimi comunisti (senza dimenticare il celebre, omonimo testo teatrale di Nigel Williams che tanta fortuna ha avuto non solo in Inghilterra dove è nato, ma anche da noi). Occorre ricordare che la storia si svolge in Slovenia, dove è forte il retaggio di certe situazioni. Per questo il “nemico” deve essere individuato il prima possibile, costi quel che costi, ed eliminato. Anche i genitori sembrano non capire, sembrano non essersi mai alzati da quei banchi sui quali il regista cinicamente li fa di nuovo sedere.

class enemy2Il professore cita più volte la frase di Thomas Mann, autore le cui opere aleggiano durante tutto il film: «La morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive». Il paradosso che si scatena ribalta le parole di Tolstoj, che ognuno soffra in maniera diversa. Ma qui non è una questione di dolore, qui si tratta di trovare il responsabile, anzi, qui si tratta dell’esigenza insopprimibile di addossare la colpa a qualcuno. Tutto, ma tutto senza capire mai qual è il punto. Anche perché si apprende poi che Sabina potrebbe essersi suicidata per diversi motivi. Una delle frasi pronunciate dal professore, uno straordinario Igor Sambor, è emblematica: «La risposta non potete trovarla perché non c’è… siete in preda di voi stessi, la corrente vi trascina via e voi vi aggrappate al primo tronco che vi passa accanto, ma anche il tronco è governato dalla corrente».  E allora, qual è la risposta: la coerenza, forse, la consapevolezza della propria situazione. Il dolore non è uno strumento, e non può autorizzare il giudizio su chi sembra non soffrire. Il dolore dovrebbe piuttosto diventare il pretesto per una comunicazione che si è persa. Lo scontento che ci circonda, la disperazione, la facile deriva violenta che ne consegue hanno bisogno di essere metabolizzate con una differente coscienza sociale e personale, magari con una maggiore disciplina morale. Senza dimenticarci che, come dice ancora Thomas Mann, «c’è un tempo per piangere e c’è un tempo per vivere».

Facebooktwitterlinkedin