Danilo Maestosi
All'Accademia francese di villa Medici

Il Barocco dal basso

Caravaggio, Bartolomeo Manfredi, Giovanni Lanfranco, Simone Vouet, Nicolas Regnier, Peter van Laer: una bella mostra, «I bassifondi del Barocco», testimonia la miseria e il mito del popolo romano nelle tele dei pittori che scelsero osti e puttane come i loro dèi

Brutti, sporchi e cattivi. Tre secoli e mezzo prima del film di Ettore Scola, la Roma dell’emarginazione e della povertà si rappresentava già così, truffaldina e gaglioffa, spudorata e vitale, malinconica e vendicativa. Ma era la pittura ad anticipare il realismo in presa diretta del cinema, il cinismo sbruffone e l’etica per tutte le tasche della commedia all’italiana. E quel popolo miserabile non abitava i ghetti e i borghetti della periferia ma il cuore stesso della capitale dei papa-re, assediando e animando di peccati, rabbia e sberleffi le quinte dei palazzi nobiliari e le rovine di un impero perduto. È la storia emendata e rimossa che riaffiora dall’inusuale ricostruzione della mostra «I bassifondi del Barocco», messa in scena fino al 18 gennaio con rigore e coraggio dall’Accademia francese di villa Medici. «La Roma del vizio e della miseria», aggiunge il sottotitolo, quasi superfluo, scelto dai due curatori, Francesca Cappelletti e Annick Lemoine: ovvero l’altra faccia d’una città parallela di ombre, ribalderie e malessere che fa da controcanto alle splendide architetture di Bernini e Borromini, ai trionfi di angeli e allegorie esemplari dei soffitti affrescati da Pietro da Cortona e dal Baciccio, alla ipocrisie di rifondazione della Controriforma.

A riscriverla questa controstoria del Barocco, in parte già nota in parte dimenticata per colpa di critici e cronisti troppo attenti, allora come oggi, a riconfermare il piacere fazioso delle bellezza e il primato di chi siede sui palchi d’onore per gettare lo sguardo verso le seconde file o il loggione, è un drappello di pittori che convergono a Roma, scrigno del mondo classico e del potere sovranazionale del Papato, da ogni parte d’Europa. A far loro da modello e apripista è il genio sregolato di Caravaggio, morto nel 1610. Pochi hanno avuto la fortuna di conoscerlo, ma tutti hanno visto e imitano i suoi capolavori, che questa mostra giustamente non porta alla ribalta per non squilibrare il proprio asse. Se lui, nonostante il carattere ribelle, i delitti di cui si è macchiato, il suo anticonformismo e le sue disavventure, è riuscito a sfondare e a conquistare i favori di mecenati e collezionisti d’alto rango, la curiosità e l’ammirazione delle corti europee, perché non seguirlo sulla strada di quel nuovo dirompente realismo che mettendo in posa volti, corpi e gesti di «attori» presi dalla strada o addirittura dall’obitorio, violava il comandamento imperante che la pittura dovesse ritrarre la Natura, emendandola dei suoi difetti?

due bevitori di Bartolomeo ManfrediTra le opere dipinte da Michelangelo Merisi subito dopo il suo arrivo a Roma spicca una tela, il Bacchino malato del 1593 (nella foto accanto al titolo), che per un gruppo di questi seguaci diventa un’icona guida, una sorta di manifesto d’intenti. Non solo per quei colori lividi, quell’ombra avvolgente, quell’abbozzo di natura morta, quel ghigno sul volto, un misto di dolore, vizio, irrisione. È l’idea stessa di quella divinità minore del Pantheon greco resuscitata, cui si deve l’invenzione del vino, a esser scelta come programma d’arte e di vita. Il vino come droga, come passaporto d’oblio, come scorciatoia per liberare, magari trasformare in visioni, desideri e pulsioni interiori una forza che può tracimare in violenza. Il vino come passerella tra bene e male. E Bacco, insieme ad altre divinità della trasgressione, come numi tutelari di una confraternita di maestri del Nord, i Bentvueghels, olandesi, fiamminghi, francesi, tedeschi, nata a Roma nel 1620, cui è dedicato il prologo e il capitolo forse più curioso della mostra. Imperdibili quadri e incisioni che raccontano i riti d’iniziazione tra le tenebre di varie taverne del centro: a volte pure baldorie di ebrezza e di sesso, altre volte rappresentazioni da setta diabolica. Piaceva ai Bentvueghels corteggiare il demoniaco, simulare smorfie luciferine, come fanno i due bevitori di Bartolomeo Manfredi (nella foto sopra). Ostentare dissolutezza e sensualità fuori copione come in quel giovinetto glabro e seminudo ritratto come una Venere da un maestro reputato come Giovanni Lanfranco (nella foto in basso).

Fare scandalo con immagini e suggestioni all’indice ai pittori della confraternita rendeva pure: ci si mantenevano barattando cibo e credito e riuscivano a volte a intrigare anche i collezionisti di sangue blu. Nelle quadrerie d’epoca non mancavano mai opere sboccate e ammiccanti come le loro: facile per i clienti sostenere che la rappresentazione dell’immoralità era comunque denuncia, implicito messaggio alla buona condotta. Una doppia morale che incalzava gli artisti più maliziosi a forzare la mano, cavalcando impunemente il registro dell’osceno: ecco in tre fascinose tale vari personaggi del popolino esibirsi persino nel «gesto della fica», come battezzavano i cronisti del tempo lo strusciare allusivo del pollice tra due dita piegate a vu. Ecco i quadri popolarsi di prostitute e mezzani, giocatori d’azzardo clandestini, bari, bulli, zingare indovine. È «l’ambigua verità di reale bellezza», aveva già sostenuto Caravaggio usando quelle comparse equivoche e straccione persino nei suoi quadri sacri. E offrendo licenza di continuare ai suoi imitatori. Maestri di solida reputazione come Simone Vouet, che diventerà in Francia pittore di corte, o il fiammingo Nicolas Regnier, o lo spagnolo de Ribera, che impreziosiscono con le loro opere gli ultimi capitoli della mostra. E altri, non meno bravi, ma più sfortunati come il francese Valentin de Boulogne, un mago dello spleen in penombra morto in miseria a Roma: esposti a fine mostra i due interni di musicanti raccolti attorno ad un sarcofago antico che fa da tavolo sono tra le opere più intense, cariche di mistero di questa galleria post caravaggesca.

Giovanni LanfrancoA metà strada tra i primi e i secondi si situa la singolare personalità di Peter van Laer, olandese di Haarlem, assiduo animatore delle folli serate dei Bentvueghels. Ecco un suo autoritratto: piccolo, il naso contorto, quasi gobbo a Roma gli affibbiarono il nomignolo di Bamboccio. Da lì nome di Bamboccianti, che battezza, quasi fosse un’unica scuola, il genere dei suoi quadri: scenette di strada, carnevale, osteria, scontri tra bulli di quartiere declinate ad accentuare il grottesco e la povertà, come se la miseria fosse uno stato a parte, il delirio e la rabbia di un’umanità di secondo grado, un passo verso il folklore che di tanto in tanto anche le classi agiate potevano percorrere senza imbrattarsi le vesti e l’anima. La cronaca cruda esorcizzata a spettacolo: l’assalto dei briganti, la rissa a coltellate davanti all’ambasciata di Spagna, lo straccione che piscia contro un monumento antico, la ragazzina che due mezzani vendono ad un cliente tra quinte di rovine e alberi frondosi dipinti da un maestro del paesaggio come Claude Lorrain. Inganni, artifici, miraggi, trasgressioni a tempo come nelle feste di Carnevale in cui anche un miserabile poteva per un giorno essere eletto re.

Giusto che la mostra ci congedi con un ultimo sipario di quadri ugualmente tenebrosi ma più riflessivi, lasciando al visitatore l’amaro in bocca della malinconia, la certezza di un salto in avanti imbrigliato, di una rivoluzione rinviata al secolo successivo.

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