Un artista al cinema
Disegnando in volo
L'ultimo film di Hayao Miyazaki (a Venezia ha annunciato il ritiro) è una favola anche per adulti sui sogni da non abbandonare mai. Disegnati come in un realismo visionario
Ritirato a Venezia il premio alla carriera, Hayao Miyazaki, 74 anni, mago del cartoon giapponese, ha annunciato l’intenzione di uscire per sempre di scena, almeno come regista. Si congeda portando sullo schermo e consegnando al pubblico il suo film più personale, una sorta di testamento del suo immaginario poetico: Si alza il vento. Il titolo è ispirato ad un verso di Paul Valery. La trama ad un romanzo che ripercorre la storia di un ingegnere giapponese, Jiro Harikoshi, realmente vissuto, noto per aver costruito un caccia da guerra velocissimo, che tenne in scacco aviazione e controaerea alleata. Uno strumento di distruzione e di morte che la fantasia di Miyazaki ha trasformato nella metafora di un sogno, quello del volo, che da anni ossessiona il regista.
E di una sfida, probabilmente persa in partenza, quella di una tecnologia sottratta alla speculazione e agli usi bellici che consenta all’uomo, a tutti gli uomini, di gareggiare con gli uccelli ed il vento e condividerne viaggiando tra le nuvole l’ebrezza. Tema controverso che gli ha attirato addosso molte critiche, in gran parte giustificate. Reso ancora più scivoloso dal personaggio su cui ha cucito il copione: uno scienziato disposto ad accantonare i suoi ideali pacifisti pur di dar vita alla macchina volante che ha in mente, e troppo rispettoso dell’ordine e della gerarchia, come lo erano molti giapponesi di allora, per opporsi alla ottusa volontà di potenza e dominio imperialistico di militari e superiori, che alleandosi con nazisti e fascisti trascineranno il suo paese e il mondo verso la catastrofe. Un naufragio che nella scena finale il film condensa in un campo costellato di rottami di aerei accartocciati e fumanti. Ma aldilà soffia il vento, si deve cercare di vivere, ci avverte Miyazaki citando Valery.
Senza dimenticare chi, come e dove eravamo: lui lo fa ricostruendo con fascinoso rigore documentario e lucida nostalgia il Giappone contadino di quel primo Novecento; le case, i campi, le chiatte sul fiume, le prime fabbriche, i treni, i carretti, persino lo sconvolgimento di un terremoto che rade al suolo e incendia mezza Tokio. E richiamando più volte in scena, come una sorta di Virgilio di un viaggio dantesco, l’esempio baffuto, spavaldo e in marsina da domatore di circo, dell’ingegnere italiano Caproni, pioniere della progettazione aerea, che inseguì invano per tutta la vita il sogno di un prototipo di bombardiere, trasformato in velivolo da trasporto di massa.
Sulla ribalta appare anche una figura alla Beatrice: la fanciulla che il nostro costruttore di aerei reincontra e sposa. Un intervallo sentimentale aggiunto al copione per alleggerire la trama. Ma neanche troppo, perché quella donna agognata e perfetta è ammalata di tubercolosi e muore lasciando il protagonista più solo di prima. Vedovo ma non inconsolabile: gli echi zen della canzone su cui scorrono i titoli di coda lo invita e ci invita a immaginarla come la scia di un aereo che solca l’aria. Un ultimo incantesimo del vento.
Non è un film per bambini, ma portate i bambini a vederlo: se superano choc e spaesamento, qualche volta la noia, possono provare emozioni che nessun altro cartone in circolazione può riservare loro, meno che mai le storie stereotipate, maldisegnate e politicamente sempre corrette, dell’ultimo Disney. Il segreto di Miyazaki è racchiuso nello sguardo, nel colpo d’occhio che volenti e nolenti ci impone. Uno sguardo che cala dall’alto, si avvicina e si allontana da scorci e paesaggi come un volo d’uccello, ci trascina su in aria, ci fa sentire allo stesso tempo appagati ma in bilico. Un brivido della Natura, che non ha bisogno di ingentilirsi, addomesticarsi con smorfie e mossettine come gli animaletti disneyani, ma si manifesta nel suo infinito, ciclico mistero di tempo e stagioni.
È questo tocco in più che fa di Miyazaki un artista difficilmente imitabile. E lo assolve da due difetti che ad altri non potremo perdonare. I movimenti rigidi e stereotipati accentuati dall’animazione al computer che rischiano di trasformare le figure umane in marionette. E le espressioni altrettanto schematiche dei volti, che li rendono quasi impassibili. Maschere come nel teatro rituale giapponese.
Un effetto di straniamento comunque calcolato, per imprimere più valore esemplare alle storie.