Silvio Perrella
Un festival dedicato al Mediterraneo

Atlante alfabetico

Da Ariosto a Calvino, viaggio e scrittura hanno sempre camminato paralleli, perché è bello anche un muro scrostato, se gli occhi sanno come guardarlo. Su questa riflessione di Silvio Perrella verterà un incontro della prima edizione del Sabirfest di Messina

Dal 25 al 28 prossimi, nel quartiere fieristico di Messina si svolgerà il Sabirfest, una rassegna di incontri dedicati al tema “vivere il Mediterraneo”. Si parlerà di libri e di viaggi, di filosofia e poetiche: giovedì prossimo, in particolare, nella Sala Vincenzo Consolo Silvio Perrella e Nicola Aricò parleranno di “Atlanti per pensare al futuro” . Questo è il testo su cui rifletterà Silvio Perrella. 

Atlante. Sull’Atlante una volta si trovavano solo carte geografiche. Poi sono fioriti gli atlanti della letteratura, quelli della filosofia e persino delle emozioni. Lo spazio sembra essersi presa una rivincita sul tempo; la geografia si è imposta sulla storia. O per dire meglio: gli aspetti geografici del mondo, finita la guerra fredda, si sono scongelati. La fine dei viaggi, sancita da Levi-Strauss, è finita. Le guerre si sono moltiplicate. Soprattutto quelle di religione.

Bellezza. Chi viaggia più alla ricerca della bellezza? Bruce Chatwin si mise alla ricerca delle vie dei canti, perché in Australia quei canti non solo segnavano i confini tra un territorio e l’altro, ma anche perché erano belli. È bello anche un muro scrostato, se gli occhi sanno come guardarlo. Chi cerca la bellezza metropolitana, chi si avventura lungo le strade delle Città, sa che molto del bottino che porterà con sé risiede nel suo sguardo. Il viaggiatore urbano è spesso un cacciatore d’immagini.

Canto. A Palermo ci sono i quattro canti. È il luogo in cui s’incontrano le sue due strade principali e l’architettura  si è dato il compito di farne un’opera di geometria barocca. Il canto è dunque un luogo d’incontro anche quando la parola la si usa come la usava Giacomo Leopardi, che ai Canti  consacro i suoi versi. La voce umana può fare miracoli, se è fornita di talento.  Cantare significa far suonare le parole, seguirne le traiettorie vocali. Quando si canta si va verso qualcosa o qualcuno. I canti, anche quando stanno fermi, come quelli di Palermo, hanno un’anima nomade.

Direzione. Quando si viaggia spesso si è costretti a chiedersi: vado di là o di qua? Quale sarà la direzione giusta? In epoca di navigatori satellitari, il viaggiatore di Città preferisce affidarsi ai propri piedi. Con le punte delle dita tasta il terreno, se ne fa un’idea tattile, e prosegue il viaggio. Che meraviglia quando, nella Recherce, Marcel mette il proprio piede su una sconnessura di una strada veneziana, e quel gesto gli mette in moto la memoria involontaria, l’unica che possa redimere il tempo passato.

Elemento. La tavola periodica degli elementi non è solo quella chimica, dalla quale partì Primo Levi per forgiare una sua raccolta di racconti. Chi ha a cuore la verità cerca sempre gli elementi primi in qualsiasi cosa gli si pari dinanzi. Goffredo Parise scrisse i Sillabari per tornare agli elementi primi del racconto e della vita. Si semplificò senza perdere in profondità. I viaggi lo avevano spinto a fare i conti con l’imperfetto; non solo il tempo verbale, ma anche e soprattutto l’imperfezione propria e altrui. E di questo si accorse con genialità Natalia Ginzbueg.

Felicità. C’è un racconto di Katherine Mansfield che porta questo titolo. È la storia di una donna che scopre il tradimento del marito alla fine di una bella festa in una una bella casa, la sua casa. La felicità è esposta come null’altro al suo contrario. Però, quando ci si mette in viaggio e lo spazio geografico ci consente di perderci senza per questo morire, beh, quella sensazione come chiamarla altrimenti se non con questa paroletta?

Ginestra. E qui torna Leopardi. Fu lui a dedicare al fiore del deserto il suo testamento poetico. Si piega ma non si spezza; nella sua debolezza sa resistere alle intemperie più di una quercia. Il poeta l’ha trasformata  per sempre nel simbolo tangibile e odoroso della  fragilità fatta forza; della vita che fiorisce anche quando l’acqua è scarsa. Anna Maria Ortese si è avvicinata a qualcosa del genere quando nel suo ultimo libro d’immaginazione ha inventato una ciotola d’acqua pulita da tenere fuori alla porta pronta per ogni viandante.

Hotel. Quando la stanchezza lo prende il viaggiatore cerca un hotel. Qualcuno se l’è segnato sul taccuino, ma non scarta quello che vede comparire all’improvviso in fondo a una strada. E quando ha preso possesso della sua stanza, sistema i suoi pochi oggetti in modo rituale, così per lo spazio di una notte quello sarà il suo luogo; il luogo dove si è fermato a dormire, ma non prima di aver preso appunti.

Italia. Eh sì, l’Italia duole a molti di noi, ma senza l’Italia non saremmo nulla. Non solo perché scriviamo nella sua lingua, ma anche perché il suo paesaggio e le sue città hanno arredato la nostra mente da sempre. L’affresco senese di Ambrogio Lorenzetti, la sua Allegoria del buon e del cattivo governo, mostra le mura che amiamo, le abitazioni sulle quali abbiamo calcato le nostre; e mostra la campagna, ben coltivata e adorna di frutti. Cosa si è salvato di tuttociò? Nulla o un esiguo poco. Ed è da quel poco che riprendiamo il nostro viaggio.

Lemmi. Ne sono pieni i vocabolari. Ma anche lo spazio della geografia può essere suddiviso in lemmi. E poi la lingua non resiste a evocare il camminatore che lemme lemme se ne va per il mondo, il novello Robert Walser in cerca di avventure lievi, pronto alla sperdimento. Quando si decide di scrivere per lemmi, lo si fa per mettere in ordine ciò che un vero ordine non ha. È solo una temporanea sospensione della sintassi, del suo infinito lavorìo di correlazioni e subordinazioni. O è semplicemente un modo diverso di far viaggiare le parole.

Mente. È un luogo buio, la mente? Una volta Cesare Garboli scrisse che non avrebbe mai voluto abitare nella mente di Franco Fortini. La mente lasciata sola mente monumentalmente, sosteneva un poeta francese. Certo, fa impressione l’uguaglianza fonica di mente (come mente) e di mente (come mentire). La mente per chi viaggia è solo una parte del corpo: suda, ha sete e a fame come tutti gli altri organi che lo compongono. Però quando pensa produce luce e disperde il buio.

Natura. Quale natura abita ancora nelle Città? L’architettura dovrebbe averne eliminato ogni sopravvivenza. E invece in alcune Città la natura c’è, eccome. A Rio, a New York e a Napoli la natura s’insinua, come foresta, come laguna, come golfo. C’è acqua che pullula sotto le pietre. Il movimento, anche quando non lo si vede, è perenne. E’ come se un bradisismo interiore le dominasse. Ecco perché queste Città viene da definirle cosmi urbani.

Ottava. Ariosto ne scrisse così tante da perdercisi. In otto versi un mondo; e ogni mondo scandito in otto endecasillabi. I poeti insegnano a scrivere con ritmo. Per secoli sono stati loro che nella nostra lingua hanno tenuto fluido il linguaggio. E più si dànno regole ferree e più sono liberi. Il loro estro è servito ai prosatori; anche a quelli che vogliono scrivere pescando le loro storie direttamente dal disordine del mondo. E la musica? Certo la musica è sempre all’origine. Scrivi un’ottava più bassa, per favore.

Perdite. Dove fanno a finire tutte le cose che perdiamo? Il signor Palomar di Calvino in un suo viaggio perse una scarpa. Se ne accorse solo disfacendo la valigia al suo ritorno. E si chiese cosa comportasse questo minimo accadimento nei ritmi del mondo, negli incespichii dei suoi simili, costretti a camminare con una sola scarpa. Perdiamo di continuo capelli e cellule. E perdiamo ricordi. E ci perdiamo quando a un bivio sbagliamo strada. Tanto che viaggiare e perdersi finiscono per essere come dei sinonimi.

Qualcosa. C’è qualcosa che ci manca; qualcosa che abbiamo dimenticato; qualcosa che si è perso e di cui ci accorgiamo all’improvviso. E qualcosa di buono? Qualcosa di simile all’odore del pane che ci raggiunge all’alba da un forno nei paraggi? Cos’è questo qualcosa non lo sappiamo mai di preciso; però è questo qualcosa che ci fa fremere e ci mette in viaggio.

Rovine. Alcune Città sono piene di rovine: edifici lasciati andare, chiese con il tetto sfondato, ex-giardini, statue marcite sotto lo sterco dei colombi… Nelle rovine c’è come un avvertimento visivo, un monito palmare: il tempo è sempre presente nello spazio e ne determina l’usura. È come se le cose si spellassero sotto l’onda d’urto delle maree del tempo. I viaggiatori del passato hanno amato le rovine archeologiche, le hanno dipinte e ne hanno scritto. Oggi incontriamo un altro tipo di rovine, ma a volte l’effetto è simile.

Strade. Le prime strade sono nate dall’abitudine. Qualcuno per più volte è andato da qui a lì e con il suo corpo ha solcato una linea; ne è nato un sentiero; e nel tempo quel sentiero è diventata una strada, Se quella strada si è incrociata con un’altra strada, all’incrocio è nata una piazza. Come ai quattro canti di Palermo. Quante suole deve aver consumato Dante per scrivere la Commedia, si è chiesto un sommo poeta russo. Scrivere e camminare posso essere un tutt’uno. E quando lo sono, le strade assumono un’importanza capitale. Soprattutto quelle che non ci sono ancora.

Tristezza. Quella che prende quando il viaggio volge al termine. C’è l’allegria dei naufragi, di cui ha parlato Ungaretti; e c’è la tristezza dei commiati. Si dice ciao in silenzio, con un groppo in gola. Ma poi si dimentica tutto, e si varca la soglia di casa con la curiosità vorace di chi ci mette piede per la prima volta

Venezia. Da Venezia partì Marco Polo. A Venezia il viaggiatore torna sempre con passione. Anche se ogni volta deve fare i salti mortali per procacciarsene un pezzetto che non sia stato già sepolto sotto l’onda d’urto del turismo. Venezia anche quando non ci sarà più, starà sempre lì a testimoniare che l’utopia abitativa è possibile.

Zero. Chi parte ricomincia sempre da zero. Lo zero lo porta sempre in tasca. E anche chi scrive di movimenti urbani sa che senza lo zero non si va da nessuna parte. Lo zero sta in fondo; è come la mascherina di Zorro. Copre per far meglio guardare.

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