Laura Novelli
Uno spettacolo del Globe Theatre

Contraddizioni Shakespeare

«Molto rumore per nulla» messo in scena da Loredana Scaramella spinge il pedale sull'alternarsi di comico e tragico che rende l'autore così vicino a noi

Ci sono spettacoli che, al di là del loro valore teatrale, funzionano come piacevoli occasioni per rileggere testi nei quali non ci si stanca mai di trovare spunti e riflessioni di sconcertante modernità. È il caso di una delle commedie romantiche più geniali di Shakespeare, Molto rumore per nulla, riproposta ora al Silvano Toti Globe Theatre di Villa Borghese a Roma dalla regista Loredana Scaramella, a tre anni di distanza da una prima versione dell’opera che anticipava l’energia e la giocosa vitalità proprie della versione attuale, senza però raggiungere certi approdi interpretativi maturati nel corso di un nuovo percorso di lettura del testo. Testo che è innanzitutto un meccanismo linguistico arguto e scherzoso capace di aprirsi a improvvise trappole tragiche per mostrare con audacia e sagacia di che potere innato sia fornita la parola e quanti artifici diversi essa metta in campo pur di centrare il suo obiettivo (repliche fino al 7 settembre, www.globetheatreroma.com).

Spettacolo teatrale "Molto rumore per nulla"Rispetto all’edizione del 2011 questo allestimento – sempre su traduzione e adattamento della stessa Scaramella e di Mauro Santopietro ma con cast in buona parte rinnovato – approfondisce proprio i toni agrodolci e grotteschi dell’opera, indugiando volentieri sulle sue declinazioni drammatiche per meglio accondiscendere le atmosfere crepuscolari di questi nostri tormentati anni di crisi ma anche per far risaltare con risoluto vigore la vena più sarcastica della pièce: quel gioco linguistico delle sticomitie intelligenti e spiazzanti, quella miscela di codici cavallereschi e codici cortesi, quel groviglio di equivoci, beffe e intrighi, quell’altalena di amori rincorsi e amori ritrosi, quel labile confine tra la vita e la morte che rappresentano i fulcri centrali del meccanismo drammaturgico. L’azione – originariamente ambientata alla corte di Messina – si sposta nel Salento e dal Salento mutua il ritmo energico delle musiche di Stefano Fresi, eseguite dal vivo dal Trio William Kemp. Qui giungono il principe di Aragona, don Pedro, e il suo seguito di cavalieri reduci da una guerra e dunque pronti ad entrare in quel tempo sospeso della pace nel quale più facilmente l’universo maschile e quello femminile si incontrano e si scontrano. Uno dei prodi militari, Claudio, si innamora perdutamente di Ero, figlia del re italiano, la quale lo ricambia con slancio e decide persino di sposarlo; un altro degli aragonesi, Benedetto, sprezzante delle donne, rivolge le sue attenzioni ad una giovane cortigiana di nome Beatrice che si dichiara disinteressata a qualsiasi rapporto d’amore e del tutto refrattaria ai sentimenti. Tra i due si gioca un continuo duello verbale, condotto a furia di scherzi, battute argute, metafore, provocazioni, che costituisce uno straordinario match filosofico-linguistico sui rapporti tra sessi (da leggere e rileggere), affidato a due interpreti assolutamente efficaci e in sintonia tra loro: lo stesso Santopietro e Barbara Moselli. La loro reciproca ritrosia funge inoltre da adeguato preambolo a quella serie di burle e intrighi che – orchestrati dal perfido don Juan e affidato a un gruppo di personaggi secondari “bassi” che assolvono l’esigenza di una sotto-trama buffonesca e popolare – peseranno notevolmente sui progetti e i propositi di tutti. Le nozze tra Ero (Mimosa Campironi) e Claudio (Fausto Cabra) saranno infatti compromesse dalla notizia/calunnia di un presunto tradimento compiuto dalla donna, in realtà innocente; il vecchio re Leonato (Daniele Griggio) farà credere la figlia morta per il dispiacere e la giusta riabilitazione del suo onore sarà coronata dalle meritate nozze con Claudio solo dopo che questi si sarà ricreduto e il turpe raggiro sdoganato. Anche gli spigolosi Benedetto e Beatrice cadranno vittime di uno scherzo che li porterà a credere di essere seriamente innamorati l’uno dell’altra (molto probabilmente lo sono davvero) e finiranno col cedere ai sentimenti e al matrimonio. Il tutto sorretto da una regia molto ritmata che fa muovere gli attori (vestiti con i raffinati costumi di Susanna Proietti) in tutti gli spazi possibili del bel teatro “elisabettiano” e che anima alcuni passaggi con ricchi intarsi musicali e con quadretti corali pieni di vitalità nei quali ricorrono spesso chiari riferimenti pittorici (si veda la scena del banchetto nel primo atto) e si respira un’atmosfera di calda, rassicurante serenità.

D’altronde, come prevede ogni commedia che si rispetti, un po’ di letizia si insinua sempre nei momenti più cupi e il lieto fine è garantito. Anzi, qui addirittura “necessario” a mostrarci proprio un mondo affannato ed eccitato che, alla fine dei conti, gira intorno a se stesso, si scompagina e si ricompone senza effettivi strappi. Scritta molto probabilmente nel 1597 e accostabile per certi versi a Pene d’amore perdute e La bisbetica domata, Molto rumore per nulla non è, infatti, semplicemente una summa della tradizione comica rinascimentale (tanto più che l’autore si servì soprattutto di fonti italiane) ma anticipa la vorticosa modernità del ‘600 e del Barocco, ponendo l’uomo ai bordi di un baratro nel vuoto: in un microcosmo sociale fatto di relazioni interpersonali basate essenzialmente sul dire e sul guardare (nothing ma anche noting) che affaccia però direttamente sul “nulla”.  E in tempi come i nostri, in cui la parola impazza smargiassa di bocca in bocca, di comizio in comizio, di social network in social network, svuotandosi nel contempo di senso profondo e di verità, la modernità del messaggio shakesperiano non può che, ancora una volta,  stupire e stordire.

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