Mario Massimo
Ritorna «Go Tell It on the Mountain»

La Bibbia di Baldwin

Una nuova traduzione riporta l'attenzione su «Gridalo forte» di James Baldwin, un romanzo-allegoria sulla paternità e sull'origine (religiosa) della vita secondo lo scrittore americano

Romanzo d’esordio di James Baldwin (riconosciuto ormai dalla critica tra i maestri della narrativa anglo-americana del ‘900), Go Tell It on the Mountain, del 1953, è stato di recente riproposto in una nuova traduzione e con più sbrigativo titolo(James Baldwin, Gridalo forte, traduzione di Silvia Mondino, Amos Edizioni, Venezia-Mestre, 2013, pp. 380, € 19.00). Certo, bisogna ammettere che la traduzione letterale dell’originale («Va’ a dirlo sulla montagna») risultava pressoché improponibile, in italiano; e, quel che più conta, per lettori italiani era comunque perso l’effetto assicurato dal fatto che si trattasse della citazione di uno spiritual natalizio. Ed è un motivo, quello della “nascita” (o, più correttamente, “ri-nascita”, nella fede cristiana), che si dimostra assolutamente centrale, a lettura conclusa, per comprendere il valore del libro.

gridalo forte james baldwinEsso ruota infatti tutto – pur concedendosi tre distesi quanto appassionati flashback perfettamente funzionali alla trama – entro la quasi aristotelica unità di tempo di una sola giornata, «un sabato di marzo» del 1935, che è poi il quattordicesimo compleanno del giovane John; e lo stesso vale, per la maggior parte della narrazione, circa lo spazio, rappresentato dal poco meno che squallido locale in cui vengono officiati i riti del “Tempio del battesimo del fuoco”, e pronunciati i sermoni di Gabriel Grimes, predicatore nero che del giovane John risulta essere il padre.

Ecco, appunto: risulta; a John, dalla prima all’ultima pagina del libro, e al lettore, in quelle iniziali. La realtà però è ben diversa.

E qui Baldwin, riferendosi per altro a un preciso dato autobiografico, ma non senza assonanze col tema evangelico della paternità putativa del Cristo, scinde in due metà, in due diversi e antitetici personaggi, la figura paterna. Mentre il padre biologico di John, il rivoluzionario e politicamente consapevole Richard («un giorno ho deciso di imparare tutto quello che sanno questi bastardi di bianchi […] in modo che nessun figlio di puttana bianco […] potesse mai più tapparmi la bocca o farmi sentire inferiore a lui») incarna agli occhi del lettore una positività quasi eroica (fino al suicidio, all’uscita dalla prigione dov’è stato ingiustamente rinchiuso, e sottoposto a vessazioni, alla cui vergogna sceglierà di non sopravvivere), è il personaggio di Gabriel ad attirare su di sé l’odio pervicace, e di una totale, biblica intensità (nonché, ça va sans dire, canonicamente edipico), del figliastro.

Le vicende che hanno portato i due uomini ad avere la stessa donna, Elizabeth, (e, quanto a Gabriel, a renderla a sua volta madre del reprobo Roy, che si prenderà una coltellata sulla fronte in quella stessa giornata di sabato, e di altre due, narrativamente irrilevanti, bambinette) sono l’oggetto dei tre flashback di cui si accennava sopra; focalizzati sui personaggi di Florence, la sorella, linguacciuta e ribelle, di Gabriel, cui è pronta a rinfacciare la durezza, e mancanza di umanità, dello stesso Gabriel e infine di Elizabeth, candida e disarmata non meno che incrollabile nella capacità di aver fede, i tre inserti si susseguono, come altrettante “preghiere” durante il rito religioso nel “Tempio”.

Ma soprattutto, essi avvincono il lettore in una spirale di coinvolgimento, impietosa e nitida a un tempo, che trova i suoi risultati più efficaci nelle battute di dialogo, precise e profonde come tagli di lama, specie quando a parlare è una donna. Sono esse, infatti, le donne, i personaggi in cui l’identificazione del lettore riesce più naturale, convincente, poetica perfino, nei momenti più riusciti: come quando la sterile prima moglie, Deborah, rimprovererà a Gabriel di aver rifiutato il figlio concepito da lui in un raptus di libidine fuori dal matrimonio, e perciò nato «nel peccato».

james baldwinEcco: forse l’elemento che rende il libro più datato, rispetto a tutto ciò che è avvenuto nel mondo, e nella maniera d’intendere il bene e il male, in questi sessant’anni, è proprio questo legare strettamente, soffocantemente, il peccato al sesso. Che, pour cause (i ’50 non essendo anni da coming out!), non solo mancherà, ma verrà totalmente spiritualizzato (e, ancor prima, soffuso di un alone di soluzioni stilistiche di alata reticenza), nell’episodio conclusivo del libro, in cui infine John troverà nel giovane, attraente correligionario Elisha, il sostegno spirituale per riscattare il suo odio, nei confronti dell’uomo cui crede di dovere la vita, nel senso di una rinnovata, entusiastica adesione alla fede in Cristo: la sua nuova, vera nascita, dunque.

Due parole, infine, sull’aspetto stilistico: per quanto attraverso il filtro della traduzione, risulta comunque evidente – in quanto cercato, con deliberata scelta estetica – il pesante debito della scrittura di Baldwin verso lo stile biblico (a un lettore di formazione cattolica, e di lingua italiana, vengono in mente assai spesso gli stilemi dell’agiografia medievale): forse la parte più difficile da accettare, oramai.

E tuttavia, per laico o agnostico che si trovi a essere il lettore, questa – nella bellezza dello stile, nell’ambizione di fare arte, con lessico e sintassi, non pura e semplice referenzialità – crediamo sia, se non la forma più alta di fede, di sicuro uno dei pregi di questo libro, ancor oggi.

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