Nicola Fano
Un lutto per la cultura italiana

È ri-morto il ‘900

La chiusura de "l'Unità" e la scomparsa di una sua colonna, Fausto Ibba, impongono due riflessioni sul passato e sul futuro della memoria e dell'informazione. A sinistra

Oggi muore l’Unita. Anzi, ri-muore per la terza volta, come ha rammentato, con comprensibile civetteria, l’ultimo direttore del giornale – Luca Landò – nell’editoriale d’addio. La prima volta, l’Unita, morì bastonata dai fascisti, nel 1926, ma covò sotto la cenere a lungo: ci voleva altro che un manganello e una bottiglia di petrolio infiammata nella tipografia torinese, per ucciderla. La seconda volta, l’Unita, morì nel Duemila, affogata dal saccente silenzio di D’Alema e dei suoi moschettieri: l’uomo che si riteneva il più furbo d’Italia elaborò la sciocca strategia secondo la quale lui e il suo partito, che ormai dialogavano con dio e con i di lui intervistatori, non avevano bisogno di un giornale dentro al quale far crescere idee e lettori. Ma rinacque, l’Unita, forse in seno a un equivoco, lambendo subito (spinta da direttori simpaticamente urlatori) quel qualunquismo impegnato che ha rappresentato l’incubatore, a sinistra, del grillismo. Non a caso, l’animatore di quella stagione, Antonio Padellaro, ora dirige l’house organ grillino. Ma ora ri-muore, l’Unita, sbeffeggiata dal gioco delle tre carte della nuova classe dirigente del Pd.

unità 1992Innanzitutto, ai tanti giornalisti e impiegati e poligrafici che da domani si troveranno senza lavoro e senza baricentro (purtroppo so molto bene di che cosa parlo) va la solidarietà sincera, profonda di Succedeoggi: molti tra coloro che scrivono su questo webmagazine, a partire da chi lo firma ogni giorno e ora scrive queste righe, in quel giornale sono nati e cresciuti.

Ma poi, questo brutto evento impone due riflessioni, una rivolta al passato e una al futuro. Vediamo.

fausto ibbaAd aggravare il lutto del momento, ieri è venuto a mancare Fausto Ibba, uomo straordinario di eccezionale statura etica, intellettuale raffinato, comunista intelligente e giornalista di grande valore. Era stato una delle colonne della macchina de l’Unita fino alla fine degli anni Settanta. Poi, dopo esser stato silurato malamente da Alfredo Reichlin (direttore dell’epoca) in quanto troppo di “destra”, aveva saputo ritagliarsi un ruolo fondamentale di commentatore ed educatore politico: molti giornalisti oggi ai vertici si sono formati sui suoi consigli, sulle sue parole e sui suoi sberleffi. Ecco, Fausto Ibba era un uomo del Novecento, era il Novecento: forte di un’ideologia non dogmatica ma dotato di un rigore morale immenso. Non esisteva interesse proprio se non in coincidenza con l’interesse generale: della società, dei compagni di vita e di idee, del Paese, del giornale. Ibba viveva a braccetto con la storia del Novecento (e non solo di quella) della quale sapeva tutto. Ma non in modo accademico o paludato: Ibba conosceva i meccanismi sociali e culturali che avevano portato alle trasformazioni capitate lungo tutto il corso del secolo. Ripeto: per lui l’individuo coincideva con la società e gli interessi di ciascuno non potevano che confluire in quelli di tutti. Nel bene e nel male. Questo è stato il Novecento. Questo è stato il comunismo italiano, questo era l’Unita. Una scuola di vita, prima di tutto.

Ebbene, questo patrimonio di etica e di memorie è stato spazzato via dal colpo di coda di un capitalismo morente che uccidendo cultura e solidarietà si è ridato ossigeno trasformandosi in capitalismo finanziario: un’idra globale priva di scrupoli che non si contenta più di accumulare beni prodotti da altri, ma vuole rubare agli altri anche le intenzioni e le illusioni. Berlusconi – l’uomo che con la solerte collaborazione di Umberto Bossi e di un pezzo della rampante classe dirigente dei partiti succedanei al Pci ha distrutto la cultura e la coscienza di sé di questo Paese – è stato l’eponimo in Italia di quel fenomeno globale. L’obiettivo comune era uccidere cultura e coscienza per far sopravvivere i propri privilegi. E da noi, la fine della memoria è stata parte di un progetto politico ordito da Berlusconi e dai suoi (presunti) intellettuali. I quali con una mano predicavano revisionismo e con l’altra lucravano beni e poltrone. Instupidendo il Paese.

unità d'alemaLa morte de l’Unita, in questo panorama, è un incidente di percorso, un danno collaterale al quale i dirigenti dei partiti succedanei al Pci non hanno saputo far fronte. Anzi, spesso ne hanno riso (D’Alema, per esempio) guardando il dito invece della luna. E così oggi ci troviamo non solo senza etica e senza morale, ma anche senza memoria.

La seconda questione riguarda il futuro, dicevo. La stampa cartacea autorefereziale che racconta il mondo come lo vorrebbe e non come è (in Italia siamo pieni di giornali del genere) è un morto che cammina da tempo. Se i grandi fogli sono passati in pochi mesi da un venduto quotidiano di oltre mezzo milione di copie a poco più di duecentomila, la ragione non è solo nella crisi economica, ma anche nel fatto che i giornali-partito (Repubblica, Il Giornale, Libero, ecc.) e i giornali-azienda (Corriere, Stampa, Messaggero) non hanno più senso: il presente è nel web, figuriamoci il futuro! Il problema è che quei colossi, i giornali-partito, per far sopravvivere il proprio primato hanno dovuto drogare il mercato dell’informazione web distribuendo “notizie” gratuitamente. Come se la conoscenza fosse un optional, come se il diritto di sapere fosse un gadget, come se il lavoro culturale che sta (dovrebbe stare) dietro la realizzazione di un giornale o di un webmagazine fosse puro divertimento e non un lavoro. l’Unita, che vantava una delle migliori edizioni web in circolazione, è morta anche perché il mercato dell’informazione in Rete non produce reddito. E non lo produce perché così ha deciso il racket dei giornali-partito e dei giornali-azienda.

unitàwebMatteo Renzi, che è il primo leader politico post-moderno italiano (Berlusconi, che a volte è stato definito tale, era invece intriso di ideologismo novecentesco: per vent’anni ha unito mezz’Italia solo nel nome dell’anticomunismo) proprio questa sfida avrebbe dovuto cogliere: l’Unita, «un brand che aveva in casa», come ha affermato, doveva essere il luogo dove sperimentare, sul web non su carta, un nuovo modo di fare informazione senza guardare solo il proprio ombelico ma aprendosi all’esterno. Anche correndo il rischio di dover cambiare. E invece il post-moderno Renzi che organizza il proprio progetto politico in centoquaranta caratteri ha perso l’opportunità di coniugare passato e futuro, resta appeso a un’idea provinciale e adolescenziale della Rete fatta solo di tweet e selfie. Per quel che resta della sinistra in Italia (un mondo ormai sconquassato da settarismi, ignoranza, protagonismi), si tratta dell’ennesima sconfitta reale: ed è curioso notare che da Occhetto in poi tutte le strategie dei progressisti nell’ambito della comunicazione siano state sbagliate. Tutte! Che sia il frutto di un presunto peccato originale consumato ai tempi della cosiddetta (dagli avversari) egemonia culturale del Pci?

Insomma, l’unica cosa che resta da sperare è che Renzi ci ripensi. Perciò: lunga vita a l’Unita!

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