Mario Massimo
A proposito de «Il mantello di porpora»

L’impero di Giuliano

Dopo Gore Vidal, anche Luigi De Pascalis dedica un romanzo al figliastro di Costantino che "revocò" la cristianizzazione d'Occidente. Ed è quasi un romanzo d'appendice

È di questi giorni la richiesta da parte di Papa Francesco ai vescovi di non «appoggiarsi a chi ha il potere»: magari gli daranno anche retta, ma è un fatto che l’orientamento della Chiesa è andato, per secoli, in direzione diametralmente opposta. A farci tornare con la mente all’epoca in cui si era appena realizzato, questo intreccio così perverso – e così contraddittorio, va detto, rispetto al messaggio stesso del Nazareno: o, quanto meno, al modo in cui esso si pose verso l’establishment del tempo –, e non era nemmeno tanto scontato che non esistesse qualcuno capace di metterlo in discussione, c’è ora un romanzo di Luigi De Pascalis (Il mantello di porpora, La Lepre Edizioni, Roma, 2014, pp. 477, € 18.00).

L’uomo che provò a fare andare la cose in un altro modo era Flavo Claudio Giuliano, figlio di un fratellastro di quel Costantino, primo imperatore di Bisanzio, che, con spregiudicato fiuto politico, aveva ribaltato la prassi degli oltre duecento anni precedenti, di persecuzioni anticristiane, per passare a un aperto sostegno della “nuova” religione, sfruttandone però la ormai capillare organizzazione come puntello al sempre più vacillante potere imperiale. Quando poi, alla morte di Costantino – che avrebbe ricevuto solo sul letto di morte il battesimo di quella religione mai praticata in prima persona, pur arbitrandone i rabbiosi scontri dottrinali, in alcuni concili –, una feroce, darwiniana selezione portò il secondo dei suoi tre figli, Costanzo, a prenderne il posto sul trono, Giuliano era poco più che un bambino, e si rifugiò negli studi: oltre a maturare un implacabile rancore verso quanti aveva visto precipitarsi ad aderire alla nuova religione, non appena l’imperatore l’aveva proclamata lecita (editto “di Milano”, 313 d. C.), salvo poi a non battere ciglio, di fronte ai delitti con cui il nuovo Augusto, egli stesso cristiano, si era assicurato il potere.

Il-Mantello-di-Porpora-Luigi-De-Pascalis-libroFigura indubbiamente fascinosa, questa dell’ex-ragazzino confinato nella solitudine di Macellum, che Costanzo poi metterà a capo delle truppe in Gallia, quasi tacitamente aspettandosene l’eliminazione sul campo; e che, invece, si rivelerà un genio tattico di livello cesariano, sconfiggerà i barbari e infiammerà le truppe al punto da esserne proclamato imperatore, a sua volta. Arrivato dunque al potere, Giuliano emanò un brusco contrordine: al Cristianesimo andava sostituito di nuovo il culto di Zeus e degli dei dell’Olimpo, o magari anche, in alternativa, quello di Helios, il sole divinizzato, la cui massima festa era il giorno natalizio, il 25 dicembre… Il progetto naufragò, perché meno di tre anni dopo Giuliano, al comando di una spedizione contro il re persiano Shapur II – c’era, sullo sfondo, l’immenso fantasma di Alessandro, di cui ricalcare le conquiste orientali… – durante uno scontro militare nel corso di una disastrosa ritirata, fra sete e dissenteria, venne mortalmente ferito: e in un modo, per di più, che induceva più di qualche dubbio sul fatto che il feritore non fosse stato fra i nemici…

Fascinoso, si diceva, questo imperatore giovane e sconfitto dal suo mettersi contro il proprio tempo: e lo testimonia l’ampio elenco di opere letterarie ispirate alla sua figura, non ultimo il bel romanzo (intitolato semplicemente Giuliano) che Gore Vidal gli dedicò negli anni ’60 del Novecento, costruito con hollywoodiane scaltrezze di taglio nella sceneggiatura e, ancor meglio, nei dialoghi.

«Temeraria» definisce De Pascalis l’eventualità di una competizione fra il suo libro e il precedente di Vidal: e non gli faremo noi, questo torto. Ma anche senza istituire odiosi confronti, è difficile perdonare, al nostro, la rocambolesca appendice – sì, avete capito bene: proprio a livello Ponson du Terrail, forse un po’ più in giù… – del figlio illegittimo di Giuliano, allevato dall’eunuco Evemero (io narrante di gran parte del romanzo, a tutti i cui snodi narrativi presenzia perciò puntualmente, e non sempre con verosimiglianza), per farsi eremita in Tebaide e poi essere arruolato fra i “parabolani” (meglio che parabalani, come preferisce scrivere De Pascalis, la a ingenerando confusione col termine ghianda; così come non di “Sciiti” può trattarsi, ben prima della nascita di Maometto, bensì di “Sciti”, termine greco per i “Goti”) giusto in tempo per partecipare all’assassinio di Ipazia, ad Alessandria, e infliggersi, in ultimo, un autopunitivo suicidio… Pimento forse non necessario, aggiunto in coda ad un libro che non prova ad elevarsi mai neanche di qualche millimetro oltre il livello che vorremmo definire «italiano medio da editing«, senza mai un giro di frase un po’ personale, mai un aggettivo che non sia vieto ed abusato, mai una situazione che esuli dalla più oliata prevedibilità. Una storia, certo, facile da leggere: ma non molto più di questo.

 

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