Loretto Rafanelli
Poesia: ancora su “Il sangue amaro”

Il fiume e la fonte

Nei libri di Valerio Magrelli si ricava sempre l’idea di un percorso originale, unico, frutto di dubbi, sorprese, sconcertanti scenari, sguardi beffardi. Ma anche una grande condivisione per la fragilità umana, tanto più acuta nel poeta...

Valerio Magrelli, dopo otto anni, pubblica un nuovo libro di poesia, e lo fa partendo da un titolo che già in qualche modo indirizza il lettore: Il sangue amaro (Einaudi, 150 pagine, 13 euro). Un titolo che porta a chiedersi da dove giunga per il poeta questo stato inoltrato nel disagio, se è vero, come è vero, che “farsi il sangue amaro” è un modo corrente di raccontare un momento complicato. Non sono agevoli le risposte, data la varietà di temi e di suggestioni che la raccolta fornisce. Chissà se il poeta ritiene che quel complesso stato derivi dal pesante arrendersi alla vecchiaia («Mi farò soffio, mi farò soffiare,/ panno lasciato al sole ad asciugare»), oppure sorga vedendo il ragazzo distrofico che si torce nella carrozzina («una creatura autotorturantesi»), o forse tutto si spieghi ricorrendo ad alcuni noti e conclamati motivi: il disagio esistenziale, il disincantato sguardo verso il nulla di questa epoca, il senso della fine, la paura del futuro. Uno stato che ci pare sintetizzi bene in questa bella poesia: «Sono una città incendiata,/ ma le fiamme non mi bruciano./ Queste fiamme sono l’ansia/ che mi brucia ma non brucia./ L’ansia avvampa e non consuma,/ come falso fuoco, eppure/ la tortura è vera, e vere/ sono queste medicine/ per curare solo un sogno/ in cui sogno bruciare».

magrelliRagioni finanche semplici si può dire, ma in fondo non c’è nulla da inventare, perché la vita gira attorno all’avanzare degli anni, al distacco dei figli, alla malattia, al senso di religiosità che ci sostiene o ci manca, ma pure al furto in casa, all’invadente fiscalità, alla paura dei campi rom, ecc. È la quotidiana sofferenza, come scrive Magrelli: «È come nel sistema circolatorio:/ il sangue è sempre lo stesso,/ ma prima va, poi viene./ Noi lo chiamiamo odio, ma è solo sofferenza,/ la vena che riporta/ il dono delle arterie alla partenza». Tanti temi, temi decisivi che coinvolgono le persone e che poi qualcuno racconta con chirurgica e dolente precisione, prospettando una visione di vita che supera perfino le contingenze per farsi voce e coscienza di una comunità, sempre che la voce sia quella del poeta ispirato come nel caso di Magrelli, che racchiude uno stato visivo e terrestre che si proietta verso l’altro e verso quell’oltre che incombe, e addirittura pare lo sfondo premonitore di un domani più o meno lontano. Che egli denuncia, nell’amaro disincanto dell’avanzata disperazione.

Posizioni assunte anche in modo forte, perché forti sono le ragioni del disagio, che giungono anche nella sfera del politicamente corretto, cioè dei temi delicati che sono ostaggio di un benpensante dire – Chiesa, immigrazione, ecc. E proprio sulla Chiesa ci sono, è vero, parole forti, ma conveniamo sulla decisa “presenza religiosa” nei versi del poeta: la sezione “Otto volte Natale” è una invocazione alla credenza più profonda, all’attenzione che ci deve essere nei confronti degli ultimi, al raccoglimento più intenso, per evitare che «questa Eclissi che non finisce mai/ (getti) la sua ombra sul Natale». Che questa sia poesia civile o meno è cosa secondaria, e credo che Magrelli aspiri a tutto fuorché a essere catalogato, etichettato, essendo posta la sua poesia (e il suo pensiero), tra mille porte girevoli. Magrelli è infatti un autore che mantiene molteplici geniali ventagli di scrittura e si avverte che non c’è mai in lui un argomento scontato, egli è sempre autore di spiazzanti sorprese, di collocazioni inusitate, di giochi labirintici, di ironie sottili («Con la presente, nel ribadire la sua ferma convinzione che la Chiesa rappresenti un Ufficio Reclami ingiustificabilmente e inqualificabilmente privo del suo direttore Responsabile, e reputando Dio un arto fantasma, vivo soltanto nel dolore della sua amputazione, il sottoscritto, viceversa, DICHIARA di nulla aver a pretendere sul piano del risarcimento personale limitatamente al giorno del Natale…»), di versi che lasciano nel lettore un raro senso di curiosità e spingono a una lettura appassionata.

Il poeta romano costruisce costantemente una alterità che non si concede mai all’ovvietà del tempo, e dove si individua bene il tema dell’indignazione e della denuncia, filtrati spesso tra il sottile filo dell’ironia e l’assoluta disposizione all’invenzione. Nella narrativa si parlerebbe di trama, dicendo della struttura e dell’articolazione del dettato, mentre nella poesia mancando una stesura unitaria, si è un po’ disorientati a seguire l’opera con questi canoni, ma nei libri di Magrelli si ricava sempre l’idea di un percorso originale, unico, frutto di dubbi, sorprese, sconcertanti scenari, beffardi sguardi. Ma pure grande condivisione umana. Lo stato dell’uomo è debole è fragile, dice Magrelli e così anche quello del poeta, che è anzi ancor più debole. Allora egli cerca una condivisione, un colloquio con le persone e con se stesso, in un tentativo estremo di una possibile salvezza, di una possibile speranza, che si può rilevare, seppure in modo esile, in questa struggente poesia, che ha peraltro come titolo Congedo: «Il mio fiume è agli sgoccioli. Ripenso alla fontana/ del Bernini nel cuore della Piazza Navona, con l’effigie/ di Nilo e Danubio, Rio della Plata e Gange./ Ripenso al Lungotevere, al suo fiume di auto/ che scorre accanto al fiume. Ripenso al plasma che,/ sotto la pelle, colpo su colpo pulsa per le membra,/ in un andirivieni seppellito/ da cui trapela il tiepido colore/ dell’incarnato: un’aureola di sangue./ Ecco, noi tutti siamo un sistema fluviale/ che cessa quando cessa la sua fonte,/ e nasce dal disgelo delle vette, dove è il regno del cuore».

 

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