Loretto Rafanelli
Un’importante raccolta poetica

Il terzo occhio

Il dubbio, il segreto, la meraviglia, il sacro, il transito, il racconto continuo, la memoria, il ritorno ai luoghi e i volti conosciuti… Così la poesia di Roberto Mussapi, ora tutta in un unico volume, si fa incessante veicolo di conoscenza, contenitore di umanità e verità

È un evento raro vedere un’antologia così ben curata e completa, come il caso del volume dedicato alla poesia di Roberto Mussapi (Le poesie, Ponte alle Grazie, 530 pagine, euro 29), tanto da rappresentare un unicum nel panorama editoriale. Si ha così la possibilità di conoscere gli scritti poetici di uno dei maggiori poeti italiani, e non solo, dalle origini, con La gravità del cielo del 1976-‘82, fino a giungere a Il capitano del mio mare. Un’antologia che contempla non solo le raccolte classiche di poesia, ma pure gli scritti, in versi, che hanno una configurazione particolare, come il poema Antartide o i poemetti per ragazzi (che sono poi letture anche per gli adulti), tra i quali ricordiamo Lo stregone del fuoco e della neve e Il capitano del mio mare. La preziosità del volume, quindi, si spiega da sé, ma tanto si può dire di questa scelta “totale” compiuta meritevolmente dall’editore (Spagnol), che non ha tralasciato nulla. Un’occasione perfetta perché Mussapi è autore complesso e atipico, proprio per una produzione che si muove in tante direzioni (con l’importante drammaturgia; le numerose preziose traduzioni, dall’inglese, dal francese, dal latino; la narrativa), e solo nella sua complessità è valutabile e apprezzabile convenientemente.

Il libro è arricchito (oltre che da una completa bibliografia e da una ricchissima elencazione degli interventi critici sui vari volumi pubblicati) da importanti saggi, che sono vere e proprie perle, da quello del Nobel Wole Soyinka, a quello del grande poeta francese Yves Bonnefoy, a quello riassuntivo e approfondito del critico Francesco Napoli, che ha curato il volume. Interventi non di cornice o di cortesia, ma scritti che entrano decisamente nella poesia di Mussapi, e ne tracciano ricchi scenari e illuminanti interpretazioni. La poesia di Mussapi, si caratterizza fin dal suo sorgere per un forte legame con certi autori, Bigongiari e Luzi innanzitutto (che poi saranno anche i prefatori delle sue prime opere), nonché di certa poesia inglese e francese; Napoli sottolinea la vicinanza con Eliot, soprattutto con il suo famoso correlativo oggettivo, e la sua ampia conoscenza della poesia internazionale, cosa che non appare così scontata tra i poeti italiani. Considerazioni necessarie queste, perché pochi come Mussapi risulteranno dentro a una nobile tradizione europea e sostenuti da una alta conoscenza teorica, che gli permetterà di raggiungere una sicura autonomia poetica e l’elaborazione di importanti studi critico-teorici (ricordiamo: Il centro e l’orizzonte; Inferni, mari, isole; Il libro del mare).

le_poesieMussapi, evidenzia una rara maturità fin dal primo libro (in verità un insieme di varie piccole raccolte), contrassegnato già da una rilevante sicurezza linguistica. Una scrittura che è sicuramente radicata nell’alveo lirico, neo-orfico, e vicina all’esperienza di Niebo, che, come si sa, si contrappone all’ideoligizzazione della parola poetica portata avanti da un ampio schieramento di poeti militanti e all’invadenza dell’avanguardia che operò con grande rilievo con il gruppo ‘63. Egli, come alcuni suoi amici, auspica invece un ritorno allo statuto originale, vocazionale e creativo della poesia, ma nel contempo nel giovane Mussapi già si intravede quello che sarà il successivo percorso, meno “cincischiante” nella palude della parola (dove altri poeti rimarranno per sempre, nell’aridità di una ripetizione di un gesto), e, soprattutto, si può notare in lui il senso sacrale e assoluto della scrittura e quello stato necessitante che lo muove. È la chiara indicazione di una via che pare un disegno creaturale originale e che lo porterà sempre e comunque a fare di ogni verso qualcosa di cruciale, dove sta un inizio e una fine, dove sta un pensiero e una vita pulsante, dove si avverte una strenua compartecipazione con il sorgivo stato della vita e della morte.

Mussapi, infatti, non lascerà mai cadere i versi su un piano improvvisato, non farà cadere la penna come si trattasse di un esercizio scontato, forzatamente istintivo, misurerà sempre i suoi versi muovendo dal versante del continuo stupore da un lato, e da una indicazione che non sarà solo creativa, ma pure teoretica dall’altro, e, aggiungiamo, da una ricerca che appare segnata da una traccia umanamente profonda, vitale e luminosa. Mussapi farà della propria poesia uno strumento di conoscenza delle cose, delle persone, delle vicende umane del passato e presenti. È la conseguenza dell’assunzione, e della metabolizzazione, del concetto eliotiano del correlativo oggettivo che fa dire giustamente a Francesco Napoli: «ogni verso doveva, narrando, svelare pensiero espresso e immagini concrete, anzi sensibili», quindi uno sguardo poetico che avverte l’esigenza di una conoscenza ulteriore, concetto che peraltro lo stesso Mussapi considera un’acquisizione avvenuta e che ne fa un puntello della propria opera, che, anzi, tenderà a sviluppare e ad arricchire attraverso una percezione che lui stesso definirà: “l’elisir arabico”, nel senso di «far sentire (con Stevenson, Butler, Yeats) vive ai sensi le immagini nate dalle parole».

Egli farà della poesia il motore di una narrazione, sentirà le voci, anche quelle più anonime, e, vorremmo aggiungere, rispetto ad alcune interpretazioni formulate nel tempo, che al poeta non interesserà solo, semplicemente, l’ascolto, ma l’ascolto sarà il presupposto di una conoscenza, a cui poi dare spazio, energia, speranza, rigenerazione, fiato palpitante. Molto ci dice a questo proposito la poesia “Il primo amore” di Luce frontale, in assoluto una delle più belle del poeta, allorché egli parla di una donna e del suo mancato incontro con un uomo («La donna che si alzò dalla panca del viale/ illuminata in quel punto dai pochi lampioni/ ancora in lotta con l’ultima rosseggiante/ luce del tramonto, e scomparve…»), dove il poeta coglie in quell’addio un dolore infinito, che è certo il dolore di ogni persona alla soglia di un abbandono, ma che ci porta a quello sguardo unico che il poeta sa consegnare agli avvenimenti, quell’occhiata che sa trattenere l’attimo infinito della fragilità, della debolezza, del fuggito senso della vita. A questo sente di essere chiamato a rispondere il poeta Mussapi, come dovesse consegnare uno squarcio di verità, come fosse uno storico che cataloga i fatti, ma a differenza di questi, partecipa e vive quella condizione, e dà sembianze e figura, in una partecipazione che si fa immagine.

mussapiC’è nella poesia di Mussapi questa capacità di dare spessore e movimento alle cose, di dare colore, struttura filmica, narrazione appunto, vita. C’è questo filo in tutti i suoi libri, tanto che si è come rapiti nel vortice delle vicende, vissute come se si fosse attori, come si fosse collocati dentro al racconto, si pensi ad Antartide, per fare un esempio, o come, per citare una singola poesia, “La veneziana”, inserita nel suo recente libro La stoffa dell’ombra e delle cose, la storia di un lungo viaggio tra Occidente e Oriente, ma soprattutto la storia di un amore (di Marco Polo); e tutto pare di vedere, di toccare, data la finissima delicata tela intarsiata tra avventura e colore che il poeta abilmente dipana, e che si conclude con una parola sospesa e segreta: «Per me partì e volle andare lontano,/ io sono il principio e la sua fine,/ come lo è in ogni avventura l’amore,/ lo attendo, portato da correnti lontane/ fluttuando sul fondo di altri mari,/ io sono Maddalena, la voce della laguna,/ la causa del suo viaggio e del suo non ritorno». Una poesia che è sì segnata da un movimento e da un incedere epico, come più volte è stato detto, ma mai questi elementi sono fini a se stessi, sempre la poesia di Mussapi è depositaria di una profonda visione del mondo, di una coscienziale umana forte tensione.

E non sfugge pure, in questa ultima immagine della poesia, quell’attenzione al mondo femminile che sa di sorgivo e lucente, di rigenerante e di teneramente accogliente, visto anche in tante altre poesie. Così questa visione del pensiero si coglie in modo esemplare, per fare un altro esempio, nella poesia “Il cimitero dei partigiani”, posta nella raccolta Gita meridiana, la poesia forse più giustamente lodata della sua produzione, dove il poeta ricorda i nomi dei combattenti caduti, le lapidi dei partigiani lì sepolti, giovani martiri ormai dimenticati che egli ci ricorda nella più alta litania, nella più pietosa attenzione, quei «Nomi, fotografie chiuse nell’ovale», quel passaggio, accompagnato dall’amato Beppe Fenoglio, che ci congiunge a un pezzo mirabile, eroico, della nostra storia. Lì su quelle lapidi egli vuol dire di una tragedia che si deve pronunciare perché non è «per me e per tutti i viventi che zoppicano/ al mio fianco che essi morirono?», perché solo in tal modo la poesia può conquistare «il rispetto con la sua lingua». Si può configurare questo come etica, non quella che agita la forza, ma come coabitazione con l’altro (seppure fosse la comunità dei morti, foscolaniamente), un’etica dentro e per una comunità, che apre a un dialogo, a una tensione, a una comunicazione. I morti deposti in quella terra madre che è nostra comunità infinita; un particolare non trascurabile, perché come dice Bonnefoy, quel cimitero è in verità un mausoleo (presso Cuneo), ma non per Mussapi che come il poeta francese sottolinea: «sui muri di un mausoleo si trovano solo riferimenti a luoghi “altri”, in un cimitero, invece, i morti sono ben presenti, sono appena sotto i nostri piedi, in quella terra».

Il poeta dovrà raccontare della grandezza di quelle morti, ma dovrà anche dire che quelle morti pur non avute invano, saranno voci di una esistenza che si prolunga come un filo infinito, perché quegli stessi morti diranno: «Non pensare a noi come si pensa ai morti/ ma come soltanto pensano in sala parto/ i nuovi nati al loro breve passato», passaggio straordinario e illuminante: la vita è nel suo risorgere continuo, al di là delle ingiustizie e delle tragedie, al di là della fine, perché il buio è abbinato alla luce, perché il dono ininterrotto del protrarsi della vicenda umana è per sé un miracolo che non può che dare speranza e sollievo, che non può che situarci in una zona di conoscenza ulteriore, che è quella del viaggio che dobbiamo percorrere, ma pure l’origine che ci ha mosso. Origine, che può anche essere intesa come il sacro, tema ricorrente nella poesia di Mussapi, seppure non manifestato e apertamente detto, sapendo egli che l’affermazione del sacro è compito del poeta, specie nella società che sempre più lo esclude, ma sapendo pure, con Hölderlin, che ciò è inafferrabile («prossimo e difficile ad afferrare è il Dio»), di conseguenza Mussapi fa parlare il sacro con le parole del segreto e senza l’invadenza, o la presunzione, del dire, perché solo così esso ci accompagna e forse un poco si svela o ci è accanto, nel segno sperato di una speranza.

PaestumTaucherL’origine non deve, inoltre, neppure farci pensare a chissà quali figure mitiche, dice Soyinka che Mussapi «non vizia il suo lettore – o, per dirla in modo più accurato, il suo complice, il suo compagno di viaggio – con uno spiegamento di metafore mentre evoca le figure storiche o gli archetipi». Il mito (a cui l’autore sempre viene accostato, non sappiamo quanto a ragione), non è necessariamente la riproposizione di figure della mitologia classica, che pure a volte ci sono, ma quella capacità di saper porre ovunque, nelle cose più significative e in quelle più semplici, la propria compassionevole e vitale osservazione. Quello sguardo che è celaniamente il terzo occhio, la poesia, il solo che permette di andare oltre, e che consente di saper cogliere, carpire, con la fragilità della vita, il segreto di ciò che umanamente ci permette di vedere, ma pure di avvertire il gesto sconosciuto, eppure universale e unico allo stesso tempo, anche divino, quel sapere dare voce, o pluralità di voci, alle cose del mondo. Mussapi con ciò compie un atto grande di fede nella vita, ma pure di umiltà, allontanando il peso egocentrico e asfissiante della propria presenza, che risulta sempre meno ingombrante, meno presente nella sua poesia (e sappiamo invece quanto il peso personale sia così invadente anche nei poeti consolidati). Mussapi ci appare sempre più situato nel mare aperto delle vicende umane, sempre più pronto alle diverse conoscenze, andando oltre certi orizzonti che contemplano un cerchio limitato e asfittico, un’esperienza che Soyinka sente vicino, perché «l’esperienza, Mussapi ci invita a riconoscere, è in primo luogo una provincia di sensi, che tuttavia è costantemente estesa oltre i limiti corporei. In tal modo, ogni verso del poeta muove oltre il proprio contesto immediato, trascende sia il luogo che l’identità temporale». Da qui una attenzione e una condivisione del Nobel per la poesia di Mussapi, per quella sua sensibilità ai tanti mondi che ci circondano.

Quello introspettivo è invece il livello che Bonnefoy, lui grande figlio della straordinaria lirica francese, mette in primo piano, ritenendo che Mussapi sia da far rientrare in quella tradizione, sia anch’esso figlio di quella tradizione, rilevando infatti che la poesia del Nostro è «tutta imbevuta di inconscio e che, se questo è vero, non è solo per via di immagini irrazionali, a colorazione onirica, ma perché a ogni istante delle sue strofe, spesso complesse, un’altra attività, fuori dalla concatenazione delle idee, è a interferire, enigmatica e irriducibile, con il pensiero che viene cercandosi», osservazioni che valgono, credo, soprattutto per una fase iniziale del poeta, che nel tempo ha seguito vie assai diverse, più illuminate dal volto straniero delle cose, dai tragitti complessi del mondo, e questo proprio perché, come si è detto, meno pressante valeva la sua parte intima.

Allora, mi pare che si possa parlare di una poesia animata da uomini, popoli, cose, fatti, e da una matericità terrestre fortemente affollata da cose, animali ed elementi: pietre, vetro, navi (e mare, che accenno solo, pur sapendo quanto questo elemento sia centrale nella poesia mussapiana), fuoco, acqua, aria, natura, gli uccelli, i pesci, ecc. Mussapi, nel suo voler raccontare le tante cose che urgono la sua complessa e straordinaria visione, diviene a tutti gli effetti antropologo, archeologo, geografo, storico, astronomo, paleontologo, oceanografo (o forse meglio: marinaio), etnografo, ecc., e tutto con una sapienza rara, frutto non semplicemente di un’ampia conoscenza, bensì di una curiosità incessante, di una investigazione ulteriore, di una riflessione continua sull’uomo, sulla storia, sulla spiritualità, sui gesti infiniti dell’umanità. Egli non è un sapiente aperto al nulla, ma il poeta che vuole sempre porsi nel dubbio, nel segreto, nella meraviglia, nel transito, nel racconto continuo, nella ricchezza della memoria e nel ritorno ai luoghi e ai volti conosciuti.

Infine, oltre a tutto, si può però dire, dalle “Parole del tuffatore di Paestum”, della consegna di una certezza: «che anche l’uomo può amare eternamente», e forse rimane, a dispetto forse anche della poesia, solo la vita, e l’amore, che va al di là della stessa poesia, perché anche questa può risultare subdola quando rischia di cancellare la vita: «Questa era la mia camera e il mio studio/ la grande libreria si è presto svuotata/…/ E non ci sono più Ulisse, e Don Chisciotte,/ e Dante, e D’Artagnan, e i Moschettieri…/ Andati, via,/ bruciati dalla poesia».

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