Andrea Carraro
Ancora a proposito di "Tutte le speranze”

Mancati maestri

Il libro di Paolo di Paolo su Indro Montanelli affronta la storia in modo inedito, quasi “antico”: ma capire le cose spesso è molto più utile che giudicarle

In Tutte le speranze. Montanelli raccontato da chi non c’era (Rizzoli, leggi anche la recensione di Pier Mario Fasanotti qui su Succedeoggi) di Paolo di Paolo, lo scrittore romano a un certo punto si lamenta di aver trovato come Maestri soltanto dei nonni o dei bisnonni.  «Dai padri e dalle madri – intendo la loro generazione e parlo del piano intellettuale – ho avuto molto meno. Troppo poco disposti a prendere sul serio qualcosa che non sia la loro stessa carriera, troppo impegnati a coltivare privilegi e alleanze. Troppa poca coerenza fra le parole e la verità dei gesti». Questo violento j’accuse di uno scrittore di solito misurato nel giudizio, devo ammettere che mi ha fatto male, perché io faccio parte proprio di quella generazione lì, di padri mancati perché incapaci di crescere, di diventare adulti… Discorso lungo, che delego ad altra sede e che altrove, in chiave narrativa, ho già svolto. Resta la sensazione che Di Paolo, pur sparando nel mucchio, abbia colto nel segno.

paolo di paoloMa veniamo al libro. Un’opera ibrida, fra le più riuscite di questa stagione letteraria. Fra memoriale e biografia, fra ricognizione storica e saggio personale, fra saggio e racconto, che forse è proprio il territorio nel quale il giovane scrittore romano si muove al meglio delle sue possibilità espressive: ricordo che Di Paolo, oltre che narratore apprezzato, è anche uno dei migliori critici letterari della sua generazione, fra i più liberi da condizionamenti anagrafici e ideologici. Si veda, a titolo di esempio, il bel saggio Piccola storia del corpo (Perrone ed.) uscito da non molto nel quale analizza molta letteratura italiana, specie novecentesca, sotto la specola della “corporeità”. La figura di Montanelli esce da questo libro in modo equilibrato, attendibile, lontano tanto da agiografiche celebrazioni che da posizioni viziate dal pregiudizio ideologico. Di Paolo racconta la sua infatuazione adolescenziale per quel grande giornalista ormai ultraottantenne, che continuava a lottare come un leone, fra illuminazioni profetiche e abbagli, dalle colonne del suo giornale, fatto segno di attacchi velenosi da alcuni e tirato per la giacchetta da altri, senza mai perdere la sua autonomia, proprio com’era accaduto per tutta la sua lunga carriera.

Di Paolo aveva instaurato un insolito rapporto epistolare con Montanelli, dopo avergli mandato una lettera d’auguri per i suoi 89 anni e aver ricevuto una sua telefonata nella quale diceva di aver apprezzato la lettera ma di non volerla pubblicare sul giornale perché non amava autocelebrarsi. Poi ci fu l’incontro, nell’aula magna di una scuola milanese, il liceo Parini, dove il giornalista era stato invitato per dialogare con gli studenti e dove Di Paolo aveva ottenuto di poter partecipare. Di Paolo aveva dietro una macchina fotografica che si vergognava a tirare fuori, ma che alla fine gli permise di fare una fotografia sfocata che possiamo vedere nel libro. Alla fine dell’incontro, la presentazione ufficiale e quel gesto affettuoso e paterno di Montanelli, una specie di carezza. Di Paolo, che voleva fare da grande il giornalista, gli scriveva spesso, e Montanelli non solo gli rispondeva, ma gli pubblicava quasi tutto nella sua rubrica di lettere coi lettori sul Corriere che si chiamava La stanza di Montanelli, a volte con pseudonimi per non inflazionare la firma.

tutte le speranzeNon era affatto ovvio in quegli anni amare Montanelli e forse non è ovvio neppure oggi: «In un Paese più abituato dell’Italia all’epica, – scrive Di Paolo – Montanelli sarebbe fra Hemingway e Truman Capote, e la sua lunga esistenza pronta per un soggetto hollywoodiano. C’è tutto il necessario». Proprio così, e il libro lo testimonia ampiamente. Forse l’epica cui allude l’autore viene in primis proprio delle sue nutrienti contraddizioni. A partire dalle prime prove da cronista di nera a Parigi «che sembra uscita da un romanzo di Henry Miller». E poi l’adesione al fascismo, la guerra d’Abissinia con i libri di Kipling e Jack London sotto braccio, la sposa ragazzina “acquistata” dal padre secondo le usanze locali, le “imbarazzanti” pagine di Commiato in tempo di pace… che Di Paolo racconta in uno degli ultimi capitoli, confessando di non riuscire a condannarlo anche se «si era nutrito di una retorica bolsa e colpevole…». Non lo condanna non solo perché su quelle cose aveva più volte fatto ammenda (ed era finito in prigione come antifascista), ma anche perché non ha alcun senso giudicare: trova assai più interessante cercare di capire il perché di certe scelte, in che modo esse rispecchiavano l’animo degli italiani in quegli anni, come queste hanno influito sulle sue scelte future. «Sarebbe divertente, – osserva Di Paolo – se non fosse triste, registrare come metà delle nostre opinioni sia frutto della convinzione di essere migliori».

E dunque non se la sente di giudicare il suo viscerale anticomunismo che lo portò nel ’54 perfino a vagheggiare «una organizzazione segreta anticomunista pronta a intervenire anche in modo violento, se necessario». Un anticomunismo che non gli impedisce tuttavia di riconoscere a Berlinguer il giorno della sua morte l’onore delle armi in un editoriale che eloquentemente si intitolava Il carissimo nemico. Il suo anticomunismo, già, che non rinnegò neppure quando lo applaudirono al Festival dell’Unità, tanti anni dopo, dopo aver consumato lo strappo con Berlusconi. Di Paolo racconta tutto, da biografo scrupoloso, con un’empatia umana che scaturisce dal continuo confronto con la propria esperienza: le rischiose corrispondenze dall’Ungheria del ‘56 invasa dai carri armati russi; la caduta del Muro che fa scrivere a Montanelli «…il Muro va ricordato per ciò che è stato: non un’aberrazione del comunismo, ma una sua conseguente applicazione»; la gambizzazione da parte di un commando dei brigatisti rossi nel ’77 (lui che istintivamente segue l’imperativo di rialzarsi subito evitando in questo modo il peggio); le battaglie sul divorzio e poi, alla fine, pure sull’eutanasia, il rifiuto della carica di Senatore a vita ecc. E molto altro ci sarebbe da aggiungere, il libro è pieno anche di gustosi aneddoti, che testimoniano il carattere verace, sanguigno, idiosincratico di Montanelli, molti dei quali sono venuti fuori nel corso della bella presentazione romana alla libreria Feltrinelli di Galleria Alberto Sordi, per voce dello stesso autore e di un Pierluigi Battista appassionato ed empatico presentatore.

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