Vincenzo Faccioli Pintozzi
In memoria di un uomo coraggioso

Canto per Tiananmen

È morto Liu Xiaobo, protagonista della battaglia per i diritti umani in Cina e Premio Nobel per la Pace. Ripubblichiamo la recensione al suo unico libro tradotto in italiano, un capolavoro tra critica e poesia per capire la tragedia che ha colpito chi ha cercato la democrazia in Cina

I sopravvissuti sono tutti figli di puttana. Perché hanno abbandonato la battaglia, voltato le spalle non solo al nemico ma anche al compagno di lotta, perché hanno permesso la morte di civili innocenti che non sapevano neanche che cosa stesse accadendo. Ma i sopravvissuti sono figli di puttana anche perché con quel massacro ci hanno costruito una carriera, hanno patito il carcere ma hanno anche ottenuto riconoscimenti che mai, mai nella propria vita avrebbero potuto sognare. E allora cosa può fare un sopravvissuto che voglia vivere in pace? Forse solo ricordare. E rimanere in silenzio.

TIananmen4È il sunto di uno dei canti di dolore più strazianti che mai siano stati scritti sul massacro di piazza Tiananmen, avvenuto nella notte fra il 3 e il 4 giugno del 1989, di cui quest’anno cade il 25mo anniversario. E l’autore è una delle figure più note della dissidenza cinese, ma anche – per sua stessa ammissione – una delle più controverse: Liu Xiaobo (morto oggi pomeriggio dopo una lunga malattia contratta in carcere, ndr), premio Nobel per la pace 2010, in carcere dalla notte di Natale del 2009 per aver osato sfidare il governo scrivendo Charta ’08, un manifesto democratico per la nuova Cina. Il testo, un vero e proprio vademecum per la riforma politica e sociale del Paese, venne firmato da migliaia di persone: intellettuali, dissidenti, cittadini comuni. E al suo principale autore è costato una condanna a 11 anni di prigione.

Ma se la sua figura è oggi abbastanza nota per il Nobel, la sua statura di autore – e soprattutto critico letterario – è abbastanza sconosciuta, quanto meno in quest’Italia convinta che il proprio ombelico (fra Montecitorio e il Vaticano) sia il centro di tutti i mondi, conosciuti e sconosciuti, abitati o disabitati. Invece in Cina e negli Stati Uniti egli è considerato un autore di tutto rispetto, anche se viene più apprezzata la sua capacità di critica letteraria che quella di autore.

Ora un libro coraggioso, ovvero Elegie del Quattro giugno – edito da Lantana (183 pagine per 16,50 euro) – potrebbe smuovere qualche impressione anche in Italia. Le “elegie” sono esattamente quello che pretendono di essere, cioè canti funebri articolati in 20 anni di poemi, scritti in occasione dell’anniversario della strage in qualunque posto l’autore si fosse trovato. Si va dal carcere, dove Liu ha trascorso già 6 anni per il suo coinvolgimento nel movimento democratico di Tiananmen, al divano di casa sua. Si passa da immagini fortissime – le “mosche masticate finemente” del 1998 – a dichiarazioni di amore struggente per la sua seconda moglie, Liu Xia.

TIananmen5Ma io, che di poesia ne capisco poco, non voglio offendere il lettore analizzando versi e distici – ma per questo lo rimando alla splendida postfazione di Jeffrey Yang alla fine del libro. Preferisco invece segnalare come uno spaccato di rara potenza si nasconda nel piccolo saggio introduttivo firmato dallo stesso Liu Xiaobo, che in poche pagine spiega tutto quello che riguarda la coscienza critica della Cina post-maoista. Dai tremori di una tomba, lo intitola lui, ed è scritto poco dopo il grande capodanno che ha portato il mondo nell’anno 2000. È dedicato alle “Madri di Tiananmen”, uno dei gruppi più coraggiosi della Cina moderna, che chiede al governo verità e giustizia sulla strage. E soprattutto è un feroce atto di accusa contro se stesso.

Certo, il regime di Deng Xiaoping e i carrarmati del “macellaio” Li Peng vengono nominati. Ma il dolore più acuto inflitto all’autore non viene dalle armi, ma dal tradimento della verità. La verità di cosa ha condotto i giovani in piazza, la verità su cosa li abbia mossi nella ribellione, la verità su come concepivano la democrazia. E la verità di scoprire di essere indegnamente celebre per aver voltato le spalle, aver tradito (anche se costretto) quei valori, e infine essere sopravvissuto. Come tanti altri figli di puttana.

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