Paolo Bonari
Una polemica su ironia e debolezza

Montaigne ci consola

A proposito della lezione del grande pensatore, contestata - senza troppa efficacia? - da Anna Maria Carpi sul ”Foglio“. E a proposito del rispetto delle fragilità, in letteratura

Io non me la sento di concordare con Anna Maria Carpi, e queste sono le mie ragioni: inizialmente, è stato il plurale a rendermi antipatico il titolo del suo articolo («Montaigne non ci consola»), pubblicato sul Foglio di mercoledì 7 maggio, ma può darsi che la contrarietà alle generalizzazioni indebite sia una mia personale ossessione e che ad altri piaccia, invece, essere accomunati e coinvolti in considerazioni così globali, estese nientemeno che alla condizione dell’intera umanità; inoltre, di quel plurale è probabile che non sia lei l’artefice: difatti, nel corpo dell’articolo, esso viene a ridimensionarsi, e lascia il posto al più modesto singolare.

Carpi è certa, inoltre, che i Saggi non abbiano influito su di lei, e che averli dimenticati non significhi anche o soprattutto averli assimilati? Una delle lezioni silenziose che, serenamente, senza troppa enfasi, fuoriesce dalle pagine di Montaigne è quella secondo cui leggere fa bene, sì, e fa bene anche leggere tanto – ma non troppo -, ma che ancor meglio fa dimenticare, senza farne un dramma, ciò che si è letto: sarà quello il momento, forse, in cui il libro in questione avrà prodotto i propri frutti più duraturi, allorché sarà entrato a far parte di noi e sarà riuscito a creare l’insieme non più facilmente districabile di stimolo esterno ed esperienza singolare, personale.

Questo è ciò che è avvenuto a me, mi pare, con Montaigne, tanto che mi è capitato di trovarmi ad avere qualche pensiero la cui paternità ho immediatamente attribuito al saggista francese, e che ho scoperto, poi, dopo tortuose ricerche testuali, essere mio, invece: perché insistevo nel voler tirare in ballo il suo magistero? Era la sua una fronda sotto la quale ambivo a ripararmi, non avendo io il coraggio di intestarmi quelle riflessioni? Credo che risalisse a lui, piuttosto, l’ispirazione che aveva guidato il mio vagabondaggio intellettuale, perché riconosco la mia capacità di produrre tante cretinate, ma riconosco anche la mia avventatezza o temerarietà nell’esporle, poi: insomma, mai avuta una gran paura, e questa è stata la causa di non poche figuracce, e di tutto ciò devo ringraziare proprio Montaigne. Se c’è uno che ha invitato tutti a non temere la propria naïveté, le proprie varie incompetenze, a rischiare e dichiarare le proprie antipatie e simpatie, idiosincrasie e parzialità, quello è Montaigne.

Uno così mi consola? Sì. Anzi no, non più di tanto, forse. Se volessi provare ad andare incontro ad Anna Maria Carpi, infatti, potrei concludere: acuisce una certa mia nostalgia e la mia insoddisfazione, caso mai, perché mi rende chiaro che la serenità esistenziale è possibile e che, però, non è in mio possesso, o che, in certi momenti lampeggianti, può essermi concessa addirittura la felicità: rafforza, allora, per dirla con Nietzsche, il “piacere di vivere”? Più precisamente, rafforza la volontà di ricercare quel piacere o il rimpianto di non averlo saputo trovare.

Ma come la mettiamo con l’asistematicità del suo impegno, con la faciloneria di cui si auto-accusa, con certa sua svogliatezza? “In ogni caso su di me, che non so neanche dove siano la profondità, la calma, il rigore delle esplorazioni cognitive del signore di Bordeaux, ha un effetto d’incoraggiamento al pressappoco, alla mia mediocrità”: queste parole della poetessa hanno, finalmente, il pregio di farmela sentire vicina, di comunicarmi le sue insicurezze e fragilità e rendono possibile a ciascuno di noi di distanziarci dalla sua personale esperienza. Su di me, per esempio, i difetti da Montaigne così candidamente ammessi producono effetti positivi: mi spingono ad analoga sincerità, a fare a meno dei vari mezzi e mezzucci intellettuali e corporativi che, spesso, proteggono le nostre argomentazioni. Non so abbastanza di un tale argomento? Meglio dichiararlo subito, non fingere: che male c’è? Vorrà dire che altrove si sono dirette le mie passioni, altro è stato il mio cammino. Una liberazione: basta con la manìa dell’accumulazione, e a ciascuno il suo. E quelli che hanno una teoria pronta per qualsiasi evenienza? Non saranno anche (proprio) loro degli insicuri? Perché che cos’è una teoria, se non la giustificazione intellettuale delle nostre negligenze? (Parola di… Montaigne o mia?). “Non hai ancora letto i grandi romanzieri russi?”, “No, ma non l’ho ancora fatto perché io ho una mia teoria, sul romanzo russo…”.

Ma il bello è ciò che ne segue: nella tortura, nella noia provocata da letture obbligatorie, è come se ciascuno diventasse uguale a tutti gli altri, come se il dovere ci uniformasse al ribasso, e non fosse possibile dare il meglio di noi stessi, sotto sforzo. È nel piacere, invece, che diventiamo chi siamo e che possiamo istituire la nostra differenza, dare ciò che è più propriamente nostro, intimo. Poi, certo, c’è piacere e piacere, c’è Montaigne e ci siamo noi, con tutte le nostre bassezze, i nostri risentimenti – Nietzsche amava Montaigne perché, nel francese, riconosceva il campione dell’uomo in salute, privo di quel risentimento che è la malattia della modernità europea. Però, che gusto pensare che il principio di piacere di un individuo in salute possa addirittura fondare il principio di realtà: della sua realtà, ma anche (un po’) di quella altrui: tanti saluti a tutte le ideologie, e ciao ciao a Freud. Ah, dimenticavo: “morte del tempo”? Quando (o dove)? Mi verrebbe da chiedere: ma non peccheremo di troppa hybris, cara poetessa? Adesso, vogliamo considerarci pure responsabili, o quantomeno coevi, di un tale cataclisma? Meglio prenderla bassa, à la Montaigne.

Facebooktwitterlinkedin