Erminia Pellecchia
Una mostra che mescola stili e generi

L’invasione del bianco

Il Museo di Capodimonte di Napoli dialoga con le opere di Luca Pignatelli. Che spiega: «L’utopia mi piace ricercarla nel passato e non necessariamente nel futuro»

Sulla soglia della dimora del tempo sospeso. A guardia un feticcio, mute presenze che ti scrutano, ti interrogano, alternate a teschi di un memento mori, simbolo di caduta e di rinascenza. Non puoi sfuggire al loro sguardo, quelle 64 facce ti inseguono, sorvegliano i tuoi movimenti, confondono i tuoi passi incerti di osservatore osservato sui sentieri della metastoria. Sulle pareti, sigillati in casseformi di cemento armato, imperatori, eroi, condottieri e semidei si dissolvono nella polvere aurea in una sequenza multipla e ossessiva, la forza e il potere che si sgretolano, restano solo le cicatrici di ambiziose avventure intravvedute e svanite. Come quelle di città perdute, i cui splendori si intuiscono tra le rovine e si fanno presagio di catastrofi permanenti, la bellezza distrutta, inquinata e minacciata da un Olocausto sempre incombente.

A far da contraltare nel continuo rimbalzo tra età dell’oro e dell’oscurità, la grande biga che rimanda all’apollinea quadriga del sole, l’impennarsi dei cavalli verso nuovi territori da esplorare. Bianchi, come la tela della storia che si ridipinge continuamente in un eterno presente. Luca Pignatelli, tra gli artisti più interessanti della moderna scena internazionale, occupa la sala Raffaello Causa di Capodimonte con la sua narrazione delirante e lucida della condizione umana scandita, col pathos della distanza, da un tempo circolare, da un cortocircuito tra passato e futuro, in cui la memoria, senza la vischiosità della nostalgia, si fa costruzione di un nuovo inizio.

La mostra (fino al 31 luglio, catalogo Artem), sapientemente curata da Achille Bonito Oliva con incursioni di Michele Buonomo ed Angela Tecce, non ha titolo. O meglio il titolo nasce dal felice binomio “Luca Pignatelli. Museo di Capodimonte”.  Perché la sua è un’invasione pacifica, un intervento distillato dalla consapevolezza di esporre in un grande museo con collezioni che spaziano dall’XI secolo a protagonisti della contemporaneità come Pistoletto, Kounellis, Paladino, Fabri, Paolini, De Dominicis: l’ultimo capitolo della stagione del rinnovamento inaugurata nel 1978 da Causa, complice Lucio Amelio, con l’irruzione nel “recinto sacro delle Muse”, tra i Masaccio, i Caravaggio e i Tiziano, del “Grande Cretto Nero” di Burri.

luca pignatelli2Arte senza confini, sottratta alla temporalità e alla territorialità, strumento taumaturgico di sopravvivenza, di rinascimento e rinascenze come stigmatizza Abo mutuando Panofsky: un linguaggio che fluisce dall’antichità alla post modernità, tra memoria e sperimentazione, l’ellenismo che è già transavanguardia, la citazione che esalta il «tutto già scritto che è già attuale». «Il mio lavoro – spiega Pignatelli – mi ha portato a indagare sull’importanza di condursi a una territorialità comune dell’arte, un luogo di segni e tipologie che ciclicamente ritornano a definire i confini, ma anche i possibili sconfinamenti. Nell’arte vi è un contenuto fuori dal tempo, anche se all’apparenza potrebbe sembrare contestualizzato in una dimensione temporale cronologica e più precisa: l’anima e il corpo di cui parlava Baudelaire. L’attenzione alle opere dei miei antenati mi affascina, l’utopia mi piace ricercarla nel passato e non necessariamente nel futuro».

L’artista milanese di origini salentine ha da sempre intrecciato un dialogo con le realtà museali: il museo, dice, «è un cerchio, uno specchio che riflette insieme la tua opera con quella degli altri». Questa di Napoli è la sua seconda esperienza. Nel 2007, al museo archeologico, si è confrontato con la classicità, soprattutto scultorea, con i suoi Schermi, 98 dipinti a mo’ di pellicola, costituiti da vasi che fungevano da contenitori di battaglie epiche, di scontri e incontri. A Capodimonte il gioco cambia dal dentro al fuori, le regole sono sovvertite, la piazza asettica della sala Causa si anima di segni e materie, la memoria iconografica invita a entrare nel museo vero e proprio, a reimpostarne la visita liberi dagli occhiali protetti delle classificazioni tradizionali. L’enciclopedia fantastica del demiurgo Pignatelli è “accumulo” quasi cupido di spazi fisici e mentali, «l’oggetto – sottolinea Bonito Oliva – viene  piegato ed adottato per un uso trasversale che solo l’artista ne può fare, l’arte parte dall’arte, l’arte progetta il passato». «L’uso delle immagini di cui mi approprio – confida Pignatelli a Buonomo –  è un modo sereno e pensoso di orientarmi rispetto al tempo della natura, alla memoria che questo ci permette di contenere. C’è una preesistenza continua rispetto al mio lavoro e una conseguente ricerca di comunicare queste distanze, spesso talmente lontane da essere siderali, come una stella morta. L’uso di un soggetto che io considero iconico, come ad esempio una figura del IV secolo, non vuole essere un avvicinamento per la creazione di un’altra bellezza, ma la volontà di usare esattamente quella immagine per provocare una corruzione temporale».

Ed è la materia stessa a farsi soggetto della rappresentazione. Come la fotografia che trasforma la scultura in dipinto, suggerendo un nuovo punto di vista dalla tridimensionalità alla bidimensionalità: è il caso dei multipli della statua di Augusto e della Biga. Poi, nell’operazione voluta di spaesamento, le immagini si sovrappongono in installazioni scultoree come il totem-cubo delle facce-icone. Il limite apparentemente fissato si sposta ancora, altri topoi emergono fascinosamente. Ecco il dipinto di un candore accecante con le montagne innevate sorvolate da un aeroplano, sorta di Leviatano-Moby Dick: «Il bianco – evidenzia la Tecce – come elemento distruttore, la luce come consunzione dell’immagine fino alla sua scomparsa». Segni fasti e nefasti. Ecco il monumentale Pompei (l’opera site specific sarà donata al museo), un quadro che non è dipinto in nessuna parte, «perché la pittura si fa anche senza dipingere», un foglio caduto in una pozzanghera, rovinato e ricostruito. Pompei come New York, come Napoli, metropoli in disfacimento. Sull’ossatura di un grande telone ferroviario, eredità del canapone degli antichi egizi, Pignatelli applica materia su materia, figure di pelle bruciata, uomini, decorazioni ed animali, colano come lava sugli squarci-ferite. L’eruzione del ’79 è un richiamo alla guerra, il Vesuvio e come un B52 con le sue bombe letali. La scritta in alto «Italia» suggerisce un’altra catastrofe: la disattenzione che genera la morte della cultura. In basso un vecchio buco che Pignatelli ha cucito sembra una tavola di Rorschach, è il primo tassello di un’altra indagine, di un’altra coraggiosa iniziativa sperimentale.  Un intervallo, forse il principio di una baudeleriana speranza di felicità.

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