Nicola Fano
«Io sono un’opera d’arte»

L’arte della performance

Abbattere il confine tra platea e palcoscenico e recuperare la forma barocca dopo il fallimento del razionalismo: un saggio di Ilaria Palomba sulla performance art

Performance è una delle parole più abusate ed equivoche dei questi tempi, tra chi si occupa di arte e spettacolo. Per dire: ho ascoltato dotti docenti universitari usare il verbo “performare” come sinonimo di recitare. È il frutto, appunto, di un equivoco accademico tipico di chi si stupisce che il teatro viva (udite udite!) nei teatri, oltre che nelle meraviglie retoriche delle lezioni universitarie… E giù con l’abuso di aspetti performativi e simili stupidaggini che tanto piacciono ai docenti universitari di materie teatrali i quali, solitamente, sanno insegnare solo la confusione di etichette che regna nelle loro teste. Poi ricordo, più d’una trentina d’anni fa, quando venne importata in Italia (sempre ad opera di docenti universitari, per la verità) la dottrina di Theodore Shank, un simpatico guru americano della performance che per qualche estate imperversò con le sue camicie hawaiane nei festival teatrali italiani e nelle relative sontuose mense (s’era all’inizio degli anni Ottanta) spiegando nella meraviglia generale che lo spettacolo era fatto di spettacolarità. Il suo carisma e la sua dottrina svanirono presto in Italia, come fosse un nuovo Marziano a Roma. Il guaio (in senso buono) è che con il suddetto guru scomparvero dai nostri palcoscenici anche gli artisti ben altrimenti interessanti (Squat Theatre, Ellen Stewart, ecc), che erano arrivati da noi al suo seguito.

marina abramovicCiò non toglie che la performance art sia una cosa seria. Che non sempre si prende abbastanza sul serio. Sennonché per evitare confusioni o ambiguità leggete Io sono un’opera d’arte, «Viaggio nel mondo delle performance art» (Edizioni del Sud, 150 pagine, 15 Euro) scritto da Ilaria Palomba, firma che i lettori di Succedeoggi conoscono bene sia come autrice di recensioni sia come narratrice. Leggete questo saggio perché fa chiarezza di molte furberie sul tema. Ilaria Palomba, infatti, è dotata non solo degli strumenti necessari a interpretare e spiegare le ragioni che stanno alla base della performance art (ha studiato il postmoderno a Parigi con uno dei suoi massimi teorici, il sociologo Michel Maffesoli), ma ha anche partecipato (non solo emotivamente) a molte performance, tanto da riuscire a comunicare con buona precisione da dove nascono certe esigenze espressive. Ed è questo il pregio maggiore del suo libro.

Il volume si divide praticamente in due parti: una storica che affronta la genesi della performance art dai tempi delle avanguardie storiche in poi (da Breton a Duchamp, da Beuys a Fluxus…) fino a spiegare il senso del ritorno al barocchismo insito nel postmoderno; e una più attuale che presenta (si direbbe “in diretta”) le nuove tendenze di questo genere artistico che mescola teatro, arte visiva, video e body art. Ci sono, in questa seconda parte, interviste e “recensioni” dove quel che conta è l’emotività che lega chi domanda e chi risponde, chi sta in platea e chi in palcoscenico. Sempre considerando che proprio la distinzione netta (fondativa del teatro tradizionale e millenario) tra platea e palcoscenico è ciò che la performance art ha cercato di cancellare. Insomma, si tratta di un saggio partecipato che fa chiarezza su un tema lambito da molte mode (e da molte polemiche, si pensi alle performance di Marina Abramovic, nella foto sopra), ma forse mai mostrato, come qui, con la chiarezza tipica di uno studioso appassionato, privo di quei vezzi accademici di cui si parlava all’inizio.

 

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