Anna Camaiti Hostert
Lettera dall'America

La morte lenta

L'esecuzione di Clayton Lockett, durata ben 43 minuti di spasmi atroci, ha riaperto negli Usa il dibattito (con relative polemiche) sulla pena di morte e i suoi rituali

Subito dopo che a Dennis McGuire, condannato a morte in Ohio a gennaio, era stata iniettata una combinazione letale di tre droghe di cui faceva parte un potente sedativo se ne era già messo in discussione il suo impiego. Infatti McGuire si era dibattuto con convulsioni di dolore durate almeno 10 minuti prima di spirare. L’introduzione del nuovo sedativo era dovuta al fatto che in Europa molti paesi si sono rifiutati di vendere sostanze stupefacenti per le esecuzioni nelle prigioni americane. Una di esse era proprio la compagnia farmaceutica danese Lundbeck che produceva il fenobarbital. Così i molti Stati americani che ancora adottano la pena di morte si sono trovati nella necessità di acquistare nuovi prodotti che hanno sperimentato sui condannati a morte. L’esempio di McGuire aveva mostrato tuttavia che non si era trovata ancora la combinazione giusta. Fino a che non era apparso il midazolam.

Così quando martedì scorso in Oklahoma per l’esecuzione di Clayton Lockett (nella foto in alto) condannato per avere prima sparato ad una diciannovenne e poi per averla sepolta viva, si è di nuovo fatto uso del cocktail letale che comprendeva il nuovo sedativo, i guai sono stati anche più gravi. Il prigioniero infatti dopo che alle 6.23 p.m. gli è stata iniettata in vena la droga che avrebbe dovuto sedarlo poco prima delle altre due che rispettivamente avrebbero dovuto fermare i polmoni e poi il cuore, è vissuto tra spasmi atroci 43 minuti prima di spirare per un massiccio attacco cardiaco. Sette minuti dopo che al condannato è stata amministrata la sostanza stupefacente che avrebbe dovuto sedarlo è stato detto che l’uomo era ormai inconscio ed è stata iniettata la seconda sostanza e poi la terza che assieme avrebbero dovuto mettere termine alla sua vita. Viceversa Lockett ha cominciato a dibattersi dopo che apparentemente era stato dichiarato sotto sedazione. Ha successivamente iniziato a emettere suoni senza senso, ma ha anche pronunciato parole come «c’è un errore». Poi ha cominciato ad avere convulsioni, ad alzare le spalle e la testa come se volesse sfuggire alla presa potente delle cinghie che lo imprigionavano al letto di morte e alla morsa del dolore che lo attanagliava.

A questo punto, cioè 16 minuti dopo l’inizio dell’esecuzione (che di norma dura dai 6 ai 12 minuti)  i dipendenti del carcere hanno chiuso le tendine che di solito si aprono su un pubblico formato da giornalisti, familiari delle vittime o semplicemente da cittadini con il gusto del macabro tutti muniti di un permesso  speciale per assistere alle esecuzioni. Stando alle dichiarazioni del direttore del carcere, Robert Patton, il medico incaricato dell’esecuzione ha accertato che uno dei tubi intra vena attraverso cui i fluidi letali vengono amministrati al condannato è esploso e pertanto che la sedazione non è avvenuta. Alcuni esperti fuori dal carcere hanno tuttavia espresso dei dubbi riguardo a tali dichiarazioni facendo intravedere la possibilità di errori nella somministrazione dei farmaci e una mancata conoscenza delle conseguenze di tali errori. Alle 7.06 p.m., una vera eternità dopo l’inizio del barbaro rito dell’esecuzione, il condannato è morto.

Una seconda esecuzione che sarebbe dovuta seguire a quella di Lockett, quella di Charles Warner, è stata posposta di 14 giorni dalla governatrice dell’Oklahoma Mary Fallin. Apparentemente però un’altra esecuzione capitale aveva già dato problemi in Oklahoma.  Quella di Michael Lee Wilson che aveva subito la pena capitale in gennaio e che aveva affermato di sentire bruciare tutto il corpo come se il sedativo, diverso tuttavia dal midazolam, non avesse fatto effetto. E anche lì c’erano stati dubbi su dove fosse stata acquistata la droga e di quale tipo si trattasse. Inoltre i dipendenti del carcere dell’Oklahoma che avevano sperimentato la combinazione delle tre droghe avevano espresso grandi perplessità sull’ efficacia. Pertanto si era giunti all’esperimento con il midazolam. «L’unico uso di questa combinazione di droghe per le esecuzioni capitali era stato sperimentato in Florida nel 2013 con una quantità di  midazolam cinque volte superiore a quella  prevista nell’esecuzione di Lockett e Warner. Facendo dei due condannati dell’Oklahoma due cavie umane» ha affermato Stephanie Mencimer della rivista Mother Jones. È pertanto comprensibile che i due avvocati dei rispettivi condannati a morte volessero vederci più chiaro e avere informazioni sulla provenienza delle droghe amministrate ai prigionieri, sui loro effetti e su altri dettagli che avrebbero determinato se la loro combinazione rappresentasse una violazione dell’ottavo emendamento cioè quello della proibizione di pene capitali crudeli e insolite. Quando lo stato dell’Oklahoma si è rifiutato di dare informazioni gli avvocati hanno fatto appello alla corte suprema dello stato. Ma dopo che la corte ha ordinato di fermare le due esecuzioni la governatrice repubblicana dell’Oklahoma Fallin si è rifiutata di riconoscere questo diritto e il deputato anch’esso repubblicano Mike Christian ha perfino paventato la possibilità di impeachment per i giudici della corte che avevano votato per l’arresto delle esecuzioni capitali. Alla faccia dell’indipendenza e della separazione dei poteri!

E forse qui è opportuno aprire una parentesi ricordando che una riflessione sulla separazione dei poteri come cardine della democrazia occidentale così come l’aveva teorizzata Montesquieu andrà ben fatta! Perché oggi è come se il sistema giudiziario, seppure tra mille storture, fosse divenuto la Cenerentola dei poteri istituzionali.  Cosa che di questi tempi è diventata molto comune. Come fa pensare anche il comportamento nostrano di Berlusconi che si scaglia contro i giudici che lo hanno condannato a scontare la sua pena presso i servizi sociali, affermando che  la sentenza contro di lui è una mostruosità. Per inciso è opportuno ricordargli che nello stato dell’Illinois, ad esempio, ci sono ben due governatori in galera per molto meno e che a loro non è stato concesso nessuno sconto come quello dei servizi sociali.

I giudici dell’Oklahoma tuttavia impauriti dalla minaccia di impeachment hanno ritirato il blocco delle esecuzioni portando all’orrore di martedì scorso. E facendo riaprire negli Stati Uniti l’annoso e ormai controverso dibattito sulla pena di morte che si arricchisce a questo punto anche di considerazioni sulle storture del sistema giudiziario senza tuttavia destituire l’autorità dei giudici o la legittimità delle altre pene comminate ai condannati. E non c’è certo bisogno di scomodare un’icona giornalistica come Bill Kurtis per tornare a parlare questa volta sì della mostruosità della pena di morte. Nel suo ormai famosissimo libro The Death Penalty on Trial. Crisis in American Justice del 2004 Kurtis che partiva da una posizione favorevole alla pena di morte dopo avere osservato per più di trenta anni gli errori del sistema giudiziario si è convinto che non ci può essere giustizia a meno che non venga eliminata questa stortura.

«Comminare la pena di morte è un obiettivo troppo importante e la condanna si dovrebbe basare  su un sistema perfetto e inattaccabile. Sono giunto alla conclusione che un tale sistema è impossibile». A questo va aggiunto che la pena di morte la cui esecuzione i repubblicani dell’Oklahoma, così assetati  di sangue, hanno voluto accelerare respingendo le richieste dei giudici  era diretta verso due neri che per quanto avessero commesso crimini orribili,  meritano certamente una fine decorosa e umana. Sempre che uno stato si possa arrogare il diritto di vita e di morte su suoi cittadini. Cosa che forse se la maggioranza della popolazione carceraria non fosse nera non sarebbe neanche oggetto di dibattito. Sarebbe già un fatto assodato e un diritto inalienabile.  Perché questo è quello che il sistema giudiziario di una democrazia reale dovrebbe poter garantire. A tutti senza eccezione. Anche perché’ è ormai risaputo, come afferma anche Kurtis nel suo saggio, che il 25% dei condannati a morte è molto probabilmente innocente.

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