Domenico Calcaterra
Un libro per adulti ragazzi

Illazioni su uno zoo

«Il topo sognatore e altri animali di paese» di Franco Arminio (con disegni di Simone Massi) è un piccolo capolavoro di letteratura fantastica. Dove le bestie sembrano proprio delle persone

Se la mia memoria di lettore irregolare, leggendo Il topo sognatore e altri animali di paese di Franco Arminio (con i disegni di Simone Massi), mi ha riportato a una delle Lettere spirituali di una solitaria figura di filosofo come Giuseppe Rensi e poi ancora a un saggio fondamentale e tuttavia dimenticato come Pietà verso gli animali di Piero Martinetti, capisco perfettamente cosa intenda il responsabile editoriale di Rrose Sélavy edizioni, Massimo De Nardo, quando afferma, a proposito dei libri della collana “Il Quaderno quadrone”, che sono libri per ragazzi scritti da autori “per adulti”. Del resto, i protagonisti di questo bestiario di paese li potremmo benissimo incontrare in uno qualsiasi dei borghi dimenticati e isolati che piacciono al padre della paesologia; come a dire che Arminio, nello scrivere queste storie brevi non ha mai in mente un pubblico differente dal consueto, non muta il suo modo di pensare, semmai ne arricchisce, in maniera inclusiva, il punto di vista, dando voce al mondo domestico e animale. Trovando amplificazione nelle tavole perlopiù in bianco e nero di Simone Massi, già apprezzato illustratore de La casa sull’altura di Nino De Vita – costola del microcosmo dei Cùntura (Mesogea, 2003) del poeta marsalese –, una fiaba in versi che narra, senza per nulla cedere alla tentazione dell’idillio, anzi con un amaro finale, di un incontro tra un ragazzo tredicenne e le creature che abitano la casa dell’altura del titolo. E scrittore e illustratore sembrano condividere qui il medesimo sentimento dei luoghi: entrambi alfieri di quella geografia “commossa” che diventa cartografia fantastica, quasi occasione di sogno a occhi aperti. Non nel segno però dell’evasione, espressione, piuttosto, di una superiore comprensione della vita. Come il topo sognatore del titolo: «Io sto al posto mio, faccio quello che lui non sa più fare, faccio tanti sogni: sono un topo sognatore».

franco arminio3Ogni storia racconta un’interazione (compiuta o mancata) con l’umano: gli animali parlano di sé per dire dell’uomo; sono figure di solitudine, illuminanti tableaux di endemica filosofia naturale, per quel mirare all’esistente entro una scala più ampia, senza per questo necessariamente contemplare l’esito di una consolante armonia. Ché nelle favole di Arminio, gli animali somigliano a sguardi concentrati sul filo rosso che connette, nella maniera più disarmante possibile, mondo passato e insensatezza dell’oggi: vivono nell’imbuto di questa irricomponibile frattura, nella fiumana di un progresso di cui colgono tutta la forza disumanante. Colpisce, nondimeno, la cruda misura della realtà percepita dai protagonisti. Ecco che, per dirne una, all’invito contenuto in una straordinaria paginetta delle Lettere spirituali di Giuseppe Rensi, nella quale il filosofo invitava, prima di uccidere a cuor leggero una zanzara o una mosca, a riflettere su quanto sforzo avesse dovuto compiere la natura per concepire una creatura, un congegno così bello e perfetto (un «piccolo e mirabile aeroplano vivente»), sembra far eco qui l’esperienza di vita della mosca di paese, a sgombrare subito il campo da facili illusioni: «Insomma è sempre una guerra. Ci vuole fortuna perché qualcuno ti stringa nel pugno della sua mano e ti porti fuori dalla casa e ti rifaccia volare». E se Martinetti, nella sua meditazione, si mostrava convinto di come nello sguardo d’ogni animale morente vi fosse qualcosa di scandalosamente umano, e concludeva che una maggiore considerazione della vita animale dovrebbe condurre a «un po’ più di moralità e carità» nei rapporti con questi poveri esseri, in Arminio l’auspicato senso di pietà di cui parlava Martinetti lo troviamo addirittura ribaltato.

franco arminio2Si prenda, per esempio, la storia del canarino di un vedovo, che vale la pena riportare qui per intero: «Sono il canarino di un vedovo. È qui in casa, morto da tre giorni e nessun se n’è accorto. Io non sono un cane e non posso abbaiare. Intanto ora la mia gabbia è sporca, non ho chi mi cambia l’acqua, chi mi mette la foglia d’insalata e l’osso di seppia per pulirmi il muso. Io canto e saltello, come sempre, altro non so fare». Le storie riescono poi spiazzanti anche per quella capacità di demolire i luoghi comuni: c’è infatti il calabrone che si ribella alla diceria messa in testa ai bambini che i calabroni siano pericolosi («Che ce ne importa a noi di un bambino che mangia un gelato?»);  e la formica Fabrizia, per nulla laboriosa e che non disdegna di riposare («Oggi non sono uscita, fatti miei»); ancora, c’è il porco non allevato per farlo ingrassare ed essere al momento opportuno mangiato, ma morto di vecchiaia, morto insomma di morte naturale; e il passero «strano» che si è salvato dalla tagliola dei bambini, perché non gli piaceva il pane; o la rana «pigra», che rimbalzava meno delle altre; o Domenico, il «ragno disoccupato», sempre più smunto al punto da confondersi con un filo della sua tela (metafora di un problema sociale allarmante, come la disoccupazione, condensato, con sintetica ed icastica metafora); o la strana vita di un verme che vive «dentro una ciliegia che nessuno ha raccolto».

Franco Arminio, da animale sensibile qual è, appartenendo alla schiatta dei veri poeti, cerca di ricomporre la ferita di «ciò che la vita separa»: i vivi e i morti, la gioia e il dolore, il silenzio e la parola. Non a caso ponendo a suggello dei suoi «esercizi di paezoologia» la storia che spiega forse meglio di tutte il movente intimo di queste brevissime prose-universo («Io sono un poeta e quindi sono un animale»), che così infine si chiude: «Nessuno sa cosa fa il poeta dentro il mondo. Non lo sa lui per primo e per questo scrive, per scoprirlo». E come il critico, anche il poeta, non può che interpretare la scrittura come epifanica avventura di continua agnizione.

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