Gianni Cerasuolo
Fa male lo sport

Un Giro di parole

Nella storia, il Giro d'Italia, al di là delle due ruote, è sempre stato il Circo Italia (come lo chiamava Pratolini). Oggi si rinnova un mito antico. Che gli scrittori, da Buzzati a Brera, da Vergani alla Ortese, hanno sempre raccontato con passione

Il Giro d’Italia è stato un grande romanzo popolare. La storia (e le storie) della bici e di questo Paese. Da quel lontano, pleistocenico 1909, anno dell’edizione numero 1, a quella numero 97 che pedala in questi giorni da Belfast a Trieste. Raccontata a lungo da scrittori e giornalisti. Quasi a creare una sorta di letteratura delle due ruote attraverso la fantasia e la curiosità intellettuale di Achille Campanile, Alfonso Gatto, Vasco Pratolini, Dino Buzzati, Anna Maria Ortese, Giovanni Testori, Roberto Roversi, Orio Vergani, Indro Montanelli, Gianni Brera, Bruno Raschi, Mario Fossati. Non tutti hanno scritto di Giro ma tanti di bicicletta. Soprattutto quando la corsa raccontava un’Italia che si riprendeva e la tv non era ancora entrata nelle case. Quando il ciclismo soppiantava in popolarità persino il calcio.

A proposito di quegli anni, Mario Fossati ha annotato: «Il Giro d’Italia era anche la rivista della nostra povertà, un paese distrutto e sconvolto da una guerra sciagurata. Osservavamo dalle vetture del seguito, la folla, ai margini: una doppia fila di vestiti sdruciti, di camicie che apparivano attraversate dalle cannonate. Era uno specchio in cui ritrovavamo la nostra immagine. Gli italiani cominciavano appena a sorridere».

giro d'italia 1940Il Giro della Rinascita, come verrà chiamato il primo dopo il conflitto, parte quarantotto ore dopo che Umberto di Savoia ha preso l’aereo che lo condurrà da Ciampino all’esilio portoghese: è il 15 giugno 1946. L’anno dopo nella carovana arriva Vasco Pratolini, inviato speciale del Nuovo Corriere di Firenze, giornale comunista diretto da Romano Bilenchi. Lo scrittore fiorentino è un grande appassionato delle due ruote e questa opportunità gli permette di avvicinare la gente, quella più umile, quella delle città più piccole dove la ripresa non si vede ancora e i segni della distruzione sono ancora evidenti. È molto fedele, Pratolini, alle cronache agonistiche ma allo stesso tempo segna con il suo tocco il resoconto giornaliero. Così si inventa l’accostamento tra la corsa della Gazzetta dello Sport e il mondo del circo. Sarà una costante dei suoi reportage in questo primo contatto con la manifestazione: «Intanto il gran Barnum che è il Giro d’Italia dà rappresentazioni di gala una di seguito all’altra. I giornalisti fanno gli imbonitori. Fanno le capriole ai margini dello spettacolo: una gara automobilistica torno torno l’arena, mentre vecchi elefanti, gazzelle zoppe e leoni reali, in bicicletta, si esibiscono al centro. È un baraccone che passa e va… È il Circo di Buffalo Bill. Dispensa volantini e caramelle, fango e imprecazioni, felicità che durano un attimo e impolverature da dover ricorrere al tintore». Sembra quasi di rileggere le cronache (anni Trenta) surreali e umoristiche di Achille Campanile e del suo Battista al Giro d’Italia: intermezzo giornalistico. Pratolini tiene per la “Brigata toscana” e per Bartali ma il corridore di cui spesso parla è un siciliano, si chiama Corrieri, «…si guadagna il pane correndo in bicicletta come milioni di uomini simili a lui se lo guadagnano lavorando nelle officine e nei cantieri. È siciliano, è venuto in continente e penso abbia una grossa famiglia da mantenere». La sottolineatura è di Vittorio Pessini che ha scritto un prezioso libro Racconti di bicicletta. Il ciclismo nella letteratura italiana del Novecento (2013, Edizioni Ensemble, Roma).

Il 1947, quando Pratolini segue la corsa, è l’anno della consacrazione di Coppi (che già aveva sorpreso tutti nel 1940) e del cedimento di Bartali. Il Corriere della Sera ha un inviato, si chiama Indro Montanelli, è al suo primo Giro. Alla vigilia dei tapponi dolomitici, Bartali è in rosa, Coppi è staccato di tre minuti ma ci sono da scalare il Falzarego, il Pordoi e il Sella nella tappa Pieve-Trento. «Stavo proprio dietro Coppi – scrive Montanelli – Lo seguivo sulla macchina di Aldo Zambrini, il suo “patron”, un uomo d’oro. Era il mio primo Giro d’Italia. Salivamo le rampe del Falzarego. Fausto, con quella sua pedalata rotonda, contina, prese a pigiare di più sui pedali. Gino veniva su a scatti rabbiosi. Fausto era più bello, più estetico e, quel giorno, volava. Bartali perse terreno: un metro, dieci, cinquanta, due tornanti. Poi, venne appiedato dal salto della catena. Ma l’altro scalava liscio, senza apparente sforzo. Dopo il Falzarego, il Pordoi. Due lacrimoni scendevano sulle gote di Zambrini. Stava nascendo il campionissimo. Fausto zittiva gli scettici».

coppiDue anni dopo, nel 1949, il quotidiano di via Solferino manda al seguito della carovana Dino Buzzati e l’autore del Deserto dei Tartari sancisce la fine del guerriero toscano sull’Izoard con un parallelo epico: «Quando oggi, su per le strade dell’Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell’anima e del corpo – e Coppi era già passato  da un pezzo, ormai stava arrampicando su per le estreme balze del valico – allora rinacque in noi, dopo trent’anni, un sentimento mai dimenticato. Trent’anni fa, vogliamo dire, quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille».

In quello stesso anno, Gianni Brera scrive alla sua maniera un ritratto straordinario del campione della Bianchi. Uscì sulla Gazzetta il 27 luglio del ’49: «La struttura morfologica di Coppi, se permettete, sembra una invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta. Coppi in azione non è più un uomo, del quale trascende sempre i limiti comuni. Coppi inarcato sul manubrio è un congegno superiore, una macchina di carne e ossa che stentiamo a riconoscerci simile. Allora persino i suoi capelli che il vento relativo scompiglia, paio esservi per un fine preciso: indicare la folle incontenibile vibrazione del moto». E ancora: «Il volto affilato e nervoso è un completamento della dinamica meravigliosa cui pure obbedisce il torace a carena. Le braccia sono due aleroni d’attacco. Non altro. Dalle reni ampie e falcate, dalle anche robuste si partono i muscoli che conferiscono alle gambe di Coppi quell’aspetto di leve disumane… Allorché, dondolando ritmicamente sui pedali, si attacca ad una salita e tu vedi Coppi al di là di ogni umano limite rinnovare l’antica bellezza dei miti, più non osi guardarlo se solo pensi che egli è, come te, uomo. Più non osi per non sentirti a petto suo, troppo meschino. E allora pensi spontaneo esaltarlo come un fenomeno unico dello sport: ed esaltarti in lui che, grandissimo e ineguagliabile campione, è almeno, come te, italiano». È un brano meno noto ma non meno coinvolgente dello storico attacco del pezzo del 2 gennaio 1960 di Orio Vergani alla morte di Fostò: «Il grande airone ha chiuso le ali. Quante volte Fausto Coppi evocò in noi l’immagine di un grande airone lanciato in volo con il battere delle lunghi ali a sfiorare valli e monti, spiagge e nevai?…».

Montanelli, Brera, Vergani, Fossati, e più avanti nel tempo Gianni Mura: tutti scrittori “prestati” allo sport, come ama ripetere con un po’ di civetteria ed un po’ di ironia Gianni Clerici quando ricorda questa definizione che Italo Calvino diede di lui? È una vecchia e mai risolta querelle, ormai esaurita a causa della materia prima, i giornalisti e gli scrittori, almeno di questi livelli (Mura è il superstite ma “veste” da tanti anni la maglia gialla del Tour de France e non quella rosa del Giro). Brera liquidò Umberto Eco – che lo definì una sorta di «Gadda spiegato ai poveri» – con un «Pirla! Se è tanto colto conoscerà anche il dialetto lombardo». Sta di fatto che in anni lontani i giornali hanno continuato a mandare, accanto ai cronisti, delle buone “penne”. Perché il Giro non raccontava soltanto la volata e la scalata, dipanava un filo di tante altre cose: era un contenitore di storie, di drammi, di facce, di paesaggi. Oggi è un’altra cosa. Dalla tecnologia agli scenari, l’epica è morta come la morale. La farmacia moderna usa altro: la simpamina di adesso si assume con pasticche e aghi o altri intrugli sofisticati che mettono i razzi nel sedere e rafforzano le gambe, intorbidando il sangue e il cervello.

gimondi e merckxAl Giro d’Italia del 1955 di scrittori ce ne erano addirittura tre: Marcello Venturi (Bandiera bianca a Cefalonia), ancora Pratolini, e Anna Maria Ortese, «prima donna clandestina della repubblica delle lettere ciclistiche» secondo Sergio Zavoli. La Ortese scriveva per L’Europeo: tre lunghi articoli che si possono ritrovare nel volume La lente scura. Scritti di viaggio (Adelphi, Milano, 2004). Dovette travestirsi, la scrittrice, con un berretto calato ben bene sugli occhi, togliere il rossetto, prendere un passaggio al volo da Pratolini: rischiava di non partire con la carovana. La Ortese in quegli anni aveva una storia d’amore con Marcello Venturi, era lì anche per stare con il suo uomo anche se i due sembravano ignorarsi. Allora non c’era ancora la parola gossip. Una storia finita amaramente. Quello è un Giro di confine, protagonisti e scenari stanno cambiando. I grandi campioni stanno cedendo il passo ai giovani. Lo spirito è diverso, anche quello commerciale. Scrive la Ortese: «Gran parte della produzione italiana, e il meglio della fantasia degli uffici pubblicitari, era là. Chi sosteneva una squadra, chi un’altra. Questa ditta aveva acquistato il tal capitano, quella il tal altro». Anni dopo si sarebbero chiamati sponsor. È il quasi Giro di Gastone Nencini. Ma un’alleanza Magni-Coppi all’ultimo minuto lo consegnerà invece al Leone delle Fiandre. C’è delusione nella scrittrice per la mancata vittoria di Nencini, il nuovo: «Era questa domenica. Col Giro che corre verso Milano, stravolto dalla sorpresa di sabato – tutto mutato – con Magni e Coppi in testa, Nencini riassorbito dalla mediocrità di ogni giorno, non più maglia rosa, non più campione, non più la scoperta di questo 38° Giro, nulla: ferita la fronte, quiete il piede sul pedale, la mente inerte a Firenze».

Poi la tv cambierà la scena girina, i giornali faranno altre scelte ma la bici continuerà ad attrarre grandi giornalisti, scrittori e uomini di cinema. Così Roberto Roversi, agli inizi degli anni Duemila, poteva scrivere questi versi: «Unica passione vedere sull’asfalto passare il Giro d’Italia/ e parlare di Napoleone./ Il vento fra i raggi/ ascoltare le gomme sibilare/ brillare la luce delle nuvole sulle maglie dei ciclisti/poveri cristi bagnati di sudore…» (La gentile signora su “Il filo rosso” semestrale di cultura, 2003).

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