Angela Scarparo
Una scrittrice al cinema

Metastoria di Berlinguer

Il documentario di Walter Veltroni non è (e forse non vuole essere) il ritratto di una generazione, ma la santificazione di un leader che ha sacrificato se stesso per la politica

Spero di non venire considerata inutilmente polemica, o peggio ancora provocatrice, se, per ciò che riguarda il film di Veltroni su Berlinguer tirerò in causa la martirologia. Lo studio delle vite dei santi e dei martiri ha, in Italia ma non solo, una sua storia e una sua fortuna, e il fatto che l’apparente laicizzazione del nostro paese l’abbia relegata a sezione degli studi spirituali, non è argomento di questo mio pezzo. Ciò che Veltroni intende fare, attraverso il mezzo cinematografico, è esattamente ciò che Lorenzo Lotto – per prendere un esempio molto alto di didattica applicata all’insegnamento religioso – fece con la vita delle sante Barbara e Brigida nei suoi bellissimi affreschi della Cappella Suardi di Trescore, in provincia di Bergamo.

Il regista vuole cioè, esaltare il soggetto di cui parla, e insegnarci, attraverso la storia che ci racconta che cosa significhi una vita buona.  Perché se no, quell’inizio con i ragazzi ingenui e sorridenti, quanto ignoranti sul soggetto che verrà trattato, Berlinguer,  che cos’è se non un invito rivolto a loro, prima di tutto, rivolto (lasciate che i fanciulli vengano a me)? E ancora: perché le pagelle di Berlinguer bambino, che con i loro due e quattro, proprio come le vite di certi santi – prendi Francesco per esempio – ci testimoniano di una certa qual sua scapestrataggine? E poi, Enrico che a quindici anni incontra la sofferenza degli operai, e, ci racconta Veltroni, «decide di dedicare la sua vita a loro»?

Più avanti, la famiglia. Nelle parole della figlia Bianca, intervistata, come tutti gli altri testimoni dallo stesso regista, Enrico Berlinguer è un padre affettuoso, presente, lo è così tanto, che quando morirà, l’unico rimprovero che la figlia stessa avrà da fare alla folla piangente sarà: «Voi lo piangete, ma tornando a casa troverete i vostri padri, io ho perso il mio!». E ancora: non solo la famiglia, il partito. Un uomo che per il suo lavoro vive, in cui crede, e che in esso si identifica totalmente. Anche a rischio di essere preso a fischi e di subire lazzi e insulti. «Buffone, buffone, venduto!» gli grideranno infatti i delegati al 43 congresso del PSI nel 1983. In un filmato, proprio come se fosse un disegno didattico, vediamo Enrico entrare nei banchi, seguito da due o tre compagni e, proprio come Gesù a contatto coi Farisei, subire in silenzio gli insulti. Non risponderà, né si lamenterà. Torniamo per un attimo all’oggi e alle categorie politiche attuali: le parole «Se non ho fischiato anche io, è perché non so fischiare!», che Craxi pronuncia a indice alzato, tipo Strega di Biancaneve, dicono a loro volta, tutto di lui. Craxi che, almeno in quel momento, fa la figura di uno sbruffone da operetta, uno per la cui lettura, umana e biografica, bisognerebbe usare forse le categorie della favola nera.

berlinguer dalema veltroniIl momento in cui il martirologio si manifesta in tutta la sua potenza, è quello della morte. Lo spettatore si sente accerchiato. Il volto dell’uomo vicinissimo, che non trattiene il vomito, che non riesce a contenere il disagio fisico, e però non si allontana dal microfono, non reagisce, non si ribella, è simile al racconto della morte di Cristo. La sofferenza è sopportata senza lamenti. Viene da chiedersi, sempre venendo all’attualità, perché non sia stato chiamato un medico, immediatamente. Berlinguer non si allontana dal palco finché non ha finito. E quando ha finito è già troppo tardi. Le parole, su quell’ultimo comizio, a Padova, nel giugno del 1984 vengono fuori dal capo della scorta, dagli operai che l’hanno visto per ultimi. «Si vedeva che stava male!», dice uno di loro, in lacrime, nell’intervista a Veltroni. «Ma se si vedeva che stava male, perché non l’avete fatto smettere?», viene da chiedersi.

Non un film biografico, quindi, quello di Veltroni, né la storia di una generazione, come vorrebbe sembrare dalle inquadrature che ci mostrano un Walter giovanissimo in compagnia della futura moglie. Non un film d’occasione, o il bilancio di una generazione, ma un santino. Un peccato? Direi di no. Ognuno della sua memoria fa quel che vuole, così come chiunque abbia la possibilità di fare un film, ha diritto a raccontare ciò che vuole. Viene tristezza invece, ad immaginare che, non da oggi, in Italia, come in certi paesi del Sudamerica, per avere successo in politica, qualunque sia stato il proprio percorso,  non sia sufficiente assumersi delle sane responsabilità; e che la politica cioè, non sia intesa come una fra le tante  forme per la risoluzione di interessi in conflitto. La politica non come la messa in comune di idee, leggi, progetti, sembra augurarsi questo film, ma una forma esistenziale cui tutto vada sacrificato. La politica quindi, come attitudine eroica: un modo di mostrare le ossa (piccole), il vomito, il sudore, la leggerezza del corpo (lo esalta Jovanotti, il cantante) e anche un modo di affrontare (senza chiamare il medico) la morte. Dall’altra parte, i Farisei a far baldoria. Per concludere c’è solo da specificare, per chi vada a vedere questo film aspettandosi una sorta di racconto della storia d’Italia degli ultimi trent’anni, che non la troverà. Questa vita, raccontata così, è metastorica. La storia di Enrico Berlinguer raccontata da Walter Veltroni, è la storia di un moderno santo che, in quanto tale, avrebbe potuto vivere ed esistere in molti paesi e in tante epoche storiche.

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