Angela Scarparo
Libri e letteratura al femminile

Scrivere donna

Che cosa hanno in comune Jean Austen e Emily Bronte? Che cosa, Elsa Morante e Natalia Ginzburg? Si “diventa" donne, come diceva Simone de Beauvoir, o c'è qualcosa che preesiste, come dice Jean Rhys?

Quando sono venuta a Roma, nel 1989, a Piazza Farnese c’era la Libreria delle donne. Era lì dal 1977. Gestita da un gruppo di studiose, era materialmente portata avanti da Maria Luisa Moretti, una signora bruna, bella, affabile e colta. Più o meno a metà dei novanta, per fare posto a un negozio di antiquariato, (che, manco a farlo apposta, si occupava soprattutto di statuaria religiosa, madonne, santi e croci), la libreria, non potendo sostenere il prezzo dell’affitto, si spostò a Trastevere, in via dei Fienaroli, dove adesso c’è la Libreria del Cinema. Stette lì qualche altro anno, poi chiuse definitivamente, per problemi economici. Molti dei libri che c’erano dentro, furono acquistati dalla Libreria della Casa Internazionale delle Donne, a via della Lungara. Ci lavoravano, allora, Maria Palazzesi e Stefania Vulterini, e con loro – anche se per un breve periodo – lavorai anche io. Quando la libreria chiuse, comprai molti dei volumi, soprattutto romanzi, che c’erano lì dentro. Ed è per questo che ne posseggo materialmente vari (e molti di loro non risultano più in catalogo).

libreria delle donne milanoUn appunto. Ci sarebbe da scrivere una storia delle Librerie delle donne, in Italia. Perché c’è da chiedersi, per esempio, come mai, in città come  Milano (nella foto) e Firenze siano sopravvissute – nella prima cambiando sede, da via Dogana a via Pietro Calvi, nella seconda come Cooperativa delle Donne – e a Roma, (come in altre città), siano scomparse, o abbiano cambiato (più o meno radicalmente) connotazione. Di chi sarà il merito (o la colpa): dello spirito del luogo? Della tradizione culturale? O più banalmente, bisognerà guardare se ci siano stai o meno finanziamenti da parte degli enti locali? Andrebbe fatto non per motivi meramente nostalgici, ma per non perdere del tutto di vista la nostra storia, che ha nella vita materiale, un aspetto fondamentale di essa. Credo che sia importante fare la geografia dei luoghi che attraversano un’epoca: le biblioteche in cui abbiamo studiato, (o le fabbriche in cui si è lavorato) i posti dove ci siamo riuniti con le amiche, gli amici, le assemblee (o i bar) che abbiamo frequentato, e dove.  A Roma, a proposito di librerie delle donne, volevo comunque segnalare l’ultima uscita, a via del Pigneto. Si chiama Tuba e contiene ottimo materiale di letteratura e politica, ben selezionato da chi la gestisce.

I libri che ho ereditato, quelli di cui parlavo sopra, mi forniscono materiale prezioso di studio. Editrice La Rosa, Luciana Tufani, Tranchida, Edizioni delle Donne, Astrea (una collana di Giunti) o anche Fetrinelli e Mondadori,  li hanno pubblicati. Ma quelli de La tartaruga, hanno per me una sorta di valore aggiunto.  Questa casa editrice, che aveva come simbolo, in bianco e nero, una tartarughina col dorso ben disegnato, (e che stava a Milano, in via Turati al 38), è nata nel 1975 per iniziativa di Laura Lepetit, e – almeno fino a un certo punto della sua storia – ha pubblicato solo ed esclusivamente libri di donne. Intento dell’editrice era – un po’ sul modello della inglese Virago – dimostrare come esistesse una linea di scrittura esclusivamente femminile, all’estero, come in Italia. Il primo volume pubblicato fu Le tre ghinee di Virginia Woolf. A quello seguirono più di 250 volumi, per un totale di 181 autrici, di cui molte tradotte. Da Paola Masino a Kate Pullinger, da Rebecca West a Edith Warthon furono studiate, tradotte e pubblicate.  Nel 1997, per problemi economici, la casa editrice fu venduta a Baldini Castoldi e Dalai.

natalia ginzburgOra, una cosa io tengo a dire: non so se sia giusto o sbagliato, il punto di vista di chi crede che le donne che scrivono abbiano tutte, qualcosa in comune fra loro, e se davvero la loro scrittura sia collegata da un filo, come sosteneva Lepetit. Cosa ha in comune la compassata prosa di Jean Austen con le righe romantiche ed esasperate di Emily Bronte? Cosa, le stesse Elsa Morante e Natalia Ginzburg (nella foto), per tenerci a luoghi, ambienti e coordinate cronologiche simili? Cosa Virginia Woolf, con Jean Rhys (nella foto accanto al titolo)?  Lo stesso discorso vale per quelle che fanno cinema o teatro. Sarà sufficiente dire che è solo una questione di generazione a dividere Sofia Coppola da Kathryn Bigelow? O Emma Dante da Marion D’Amburgo? Credo di no. Di una cosa però sono  certa: molte delle donne che scrivono, affrontano nelle loro opere, il tema dello stereotipo di genere.

E non sempre – o non solo – perché ci sia in loro una volontà specifica di occuparsene, o perché dedichino ad esso parte della loro attività. Prendiamo per esempio Jean Rhys: niente di più lontano dai suoi libri, o dalla sua vita, di qualcosa che assomigli, anche vagamente, a «un attivismo femminista». «Non sarei mai stata parte di niente. Nessun posto poteva darmi un senso d’appartenenza, e lo sapevo, e tutta la mia vita sarebbe stata uguale: cercare d’appartenere e non riuscirci. Qualcosa andava sempre storto. Sono una straniera e lo sarò sempre e, dopotutto, non m’importava poi così tanto», scriveva in Smile Please (Sellerio, 1992, traduzione di A. M. Torriglia), la sua autobiografia.

La protagonista dei suoi romanzi (è quasi sempre una donna emarginata, sofferente, dipendente, mantenuta, sola) pare continuamente piombare nel luogo comune più vieto, per quel che riguarda l’identità femminile. Conflittuale, poco ironica, dolente, cattiva, competitiva con le altre, riveste in tutti i romanzi lo stesso ruolo. La Rhys, nata in Dominica nel 1890 da padre gallese e madre creola, si trasferisce in Inghilterra a sedici anni, dove  per campare fa la ballerina di fila in una compagnia di giro. I suoi primi romanzi (Quartetto, Addio Mr. Mckenzie, Viaggio nel buio, Buongiorno, mezzanotte) furono pubblicati grazie all’interessamento di Ford Madox Ford (che aveva conosciuto a Parigi) tra i ‘20 e i’30, ma passarono inosservati. Fu grazie a  Diana Athill che nel 1966, uscì Il Grande Mar dei Sargassi, (l’opera per cui la Rhys è, diventata celebre) e che furono ristampate le prime sue opere.

In due parole: io non so se esista «il punto di vista» delle scrittrici, né so se esista quello «delle donne», come a volte ancora oggi capita di leggere sul web, o sui giornali. Tendo a credere, come diceva Simone de Beauvoir, che «donne si diventa», così come si diventa scrittrici, o scrittori. Ma credo anche che, senza una conoscenza minima (o una minima consapevolezza) di ciò che ci precede, della vita e del lavoro delle singole artiste (delle tecniche che hanno usato, delle figure retoriche che hanno frequentato, del lavoro che hanno fatto, e di come lo hanno fatto) sia abbastanza complicato, difficile, oltre che ridicolo a volte, semplicemente «diventare».

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