Pier Mario Fasanotti
Un pamphlet sul giornalista-tuttologo

Scalfari: non è tutto oro quello che luccica

Non è la maestria giornalistica a essere presa di mira da Francesco Bucci in “Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante”, ma il sentenziare filosofico dell'ex direttore di “Repubblica” spesso errato o approssimativo. Come il libro dimostra con puntiglio, esattezza e vera cultura

Lo stesso studioso che nel 2011 ha contestato il divulgatore di filosofia Umberto Galimberti, oggi si occupa di Eugenio Scalfari, là dove il fondatore del quotidiano La Repubblica si cimenta con argomenti di stampo generalmente filosofico. E, con una mitragliata di approfondite precisazioni, lo definisce «inesperto nocchiero». A volte usa l’ironia, mai ricorre all’insulto. Questo censore culturale, di grandissima cultura, si chiama Francesco Bucci. Da poco in libreria c’è il suo dotto e polemico libro intitolato Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante (pubblicato da Società Editrice Dante Alighieri, 157 pagine, 14,50 euro). Come si sa, Scalfari ha studiato economia ed è esperto di politica. Poi, con l’incanutimento (e la pensione) ha cominciato a frequentare testi filosofici, teologici (ammettiamo questa variante del sapere, anche se non ne siamo convinti) e sociologici e ha scritto alcuni libri di grande ambizione presso Einaudi. Non basta: è uscito un “Meridiano” (Mondadori) contenente i suoi scritti: opera che consacra un autore come un classico del pensiero. Insomma una sorta di Premio Nobel editoriale o quasi. E a questo proposito, come riporta Bucci, è per così dire saltato sulla sedia Giulio Ferroni, orgoglio del pensiero italiano, il quale nell’intervista al Fatto Quotidiano (15 luglio 2011) si è espresso in modo non sgarbato ma ferocemente critico: «…si tratta di un appiattimento sul presente. Scalfari è un grande giornalista, ma quale Scalfari verrà meridianizzato? Gli articoli o le opere di memorialistica possono andare, ma il resto… non mi faccia dire cose crudeli».

COP. SCALFARIIl pamphlet di Bucci, per ragioni di data di uscita, non tiene conto dell’incontro tra l’ex direttore di Repubblica e il Pontefice, avvenimento strombazzato in ogni anfratto medianico, dopo uno scambio di lettere sulle colonne del quotidiano romano. Lo stesso giornalista, nel programma Che tempo che fa condotto da Fabio Fazio, ha descritto, con malcelata vanità alcuni particolari della cordialità affettuosa (crediamogli, anche se lui è l’unica fonte narrante) con cui Papa Francesco avrebbe ascoltato le sue argomentazioni e i suoi (forse) interrogativi. Pochi giorni dopo l’editorialista, con una sicurezza che rasentava l’editto o il dogma, ha scritto che il successore di Benedetto XVI «ha cancellato il concetto di peccato». Anche un ginnasiale potrebbe, a buon ragione, storcere il naso. C’è da dire che l’intellighentia italiana è stata fin troppo deferente verso il famoso “Barbapapà”, nomignolo che al corsivista è stato appiccicato dai suoi redattori. Ogni commento su quella frase è stato condito con tanti “ma”, “forse”, “occorre considerare il contesto”, eccetera. Una sorta di salsa cosparsa con abbondanza sulla carne da portata, come si faceva quando non esisteva il frigorifero per evitare che la suddetta carne puzzasse maledettamente (i francesi eccelsero in questo camuffamento olfattivo).

Il “contestatore” Francesco Bucci, il cui intervento dottrinale è stato francamente sottovalutato dai giornali per ragioni che vi lasciamo immaginare (la censura migliore appare dietro la maschera del silenzio o del quieta non movere), inizia il suo libro in maniera per così dire laterale. Per usare una metafora pugilistica, comincia a stuzzicare Scalfari con colpi ai fianchi. Per esempio cogliendolo in fallo sulla geometria. Scrive Scalfari in Incontro con Io, pag. 55-56: «…l’angolo è l’incontro di due semipiani. C’è, ci deve essere una straordinaria esperienza di vita e una stupefacente capacità di astrazione perché il pronipote dell’homo sapiens sia arrivato a formulare una definizione così asciutta e rigorosa». Sarà anche “asciutta e rigorosa”, ma è anche erronea. Bucci precisa: «Sono due semirette, e non due semipiani, a delimitare un angolo (piano). Ma Scalfari pensava al diedro (“diedro”, Eugenio, non “dietro” !». Scalfari non indietreggia dall’onniscienza geometrica quando asserisce, nel libro Scuote l’anima mia Eros – titolo un po’ shakespeariano, uno di quelli usati spesso dall’ottimo narratore spagnolo Marías -, che «il triangolo amoroso è stato una figura sociale molto diffusa in tutte le epoche e in tutti i luoghi… si tratta di un triangolo isoscele, nel senso che pende più da una parte che dall’altra». Non lo si può certo contestare sulla pendenza. Rimane il fatto, controbatte Bucci, che il triangolo geometrico non pende mai, neppure lo scaleno, che si limita ad avere tutti gli angoli diversi tra loro, figuriamoci l’isoscele che ha due angoli uguali e sta ben saldo sulla base».

Scivolone anche sull’astronomia, aggiunge Bucci. Il quale spiega che Scalfari (Repubblica, 6 luglio 1999) ha confuso disinvoltamente Euclide con Tolomeo. “Barbapapà”, riferendosi alla meccanica quantistica (addirittura!) e precisamente a Werner Heisenberg, Niels Bohr e altri, afferma che «tutto quel gruppo di scienziati mise in discussione la fisica di Newton così come Newton aveva rivoluzionato i principi di Euclide…». Bucci è uomo garbato e paziente, ma a volte alza la voce, almeno così ci pare visto che la sua parola si legge, ma non si ode la sua voce: «Nonostante le lacune e nonostante generalmente si ritenga che l’idoneità mentale alla ricerca e alla scoperta si attenui con l’età, Scalfari recentemente ha avuto un colpo di genio da premio Nobel: la grande unificazione delle teorie fondamentali della fisica, che gli scienziati cercano invano da quasi un secolo, in realtà è già stata trovata da Isaac Newton con la scoperta della natura ondulatoria della forza di gravità». Tutti lo ammettono: la scienza quantistica sfianca anche chi ha tre dottorati di ricerca o due cattedre universitarie. Ma non Scalfari.

Dopo i colpi ai fianchi, l’autore di questo libro passa, per così dire, al “gancio” o all’“uppercut”, entrando nel ring della filosofia. A proposito dell’asserzione scalfariana secondo cui «gli Essais sono stati questo, l’icona del pensiero moderno, il suo inizio e il suo culmine. Tutti gli autori che hanno rappresentato altrettante vette di quel pensiero sono stati debitori di Montaigne, così Descartes, così Spinoza, Hume, e Diderot e Voltaire; Rousseau, Kant, Goethe, Verri, Beccaria, due secoli interi gli sono debitori; anche se non tutti l’hanno letto» (citazione dal libro Per l’alto mare aperto). Bucci, oltre a chiedersi di quale Verri si parla (Alessandro o Pietro?), contesta così: «L’assertività (che connota la maggior parte delle dissertazioni “culturali” del nostro) produce così una sorta di inversione dell’onere della prova: non è Scalfari a dover motivare ciò che sentenzia, ma è chi legge – se lo vuole – a dover verificare se le sentenze non siano per caso corbellerie belle e buone». Quali, per esempio? Scalfari, dopo aver parlato delle idee di Platone, «questi enti incorrotti che toccano il cielo e abitano dall’inizio dei tempi nella pianura della Verità…», arriva alla conclusione che «per venticinque secoli l’uomo occidentale ha pensato più o meno allo stesso modo di Platone» (da Incontro con Io, pag. 33). Bucci controbatte ricordando una cosetta che ricorda anche chi scrive questa nota e ha frequentato il liceo classico: «Ma non fu già Artistotele a confutare la teoria platonica delle Idee?». E poi ricorda – ma Scalfari evidentemente no – ciò che molti conoscono, ossia l’affresco di Raffaello (La scuola di Atene) «che rappresenta Platone con l’indice verso l’alto, a indicare il regno delle Idee, e Aristotele con il palmo della mano volto verso il basso, a indicare il più prosaico mondo degli enti». Sublime sintesi, quella di Raffaello.

Francesco Bucci, con puntiglio ed esattezza di fonti (lette, controllate cento volte) continua nella sua contestazione concettuale contro l’anziano giornalista, ormai tuttologo. E cita anche le obiezioni mosse dal filosofo Gianni Vattimo (ottobre ’85, La Stampa). Senza contare il commento di Luc Ferry e Jean-Didier Vincent (Che cos’è l’uomo?, Garzanti, 2002). Qui – e non ci addentriamo nella impari diatriba, per questioni di spazio – si fa cenno (ironico) a una «magnifica tautologia» e a vari «slittamenti a proposito del processo evolutivo e sulla presunta “etica evoluzionistica”». Insomma, tutti noi ricordiamo una famosa frase. Questa: Dubito ergo sum. Che parrebbe non appartenere, secondo Bucci ma non solo, al ciclo neuronale e culturale del famosissimo giornalista.

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