Danilo Maestosi
Una mostra da non perdere a Roma

Paolina e Giacometti

Negli spazi della Galleria Borghese le donne filiformi e "terminali" di Alberto Giacometti si misurano con l'opulenza della scultura classica. Il modo migliore per dare senso all'incubo creativo di un maestro del Novecento

L’arte ci ha consegnato due icone che più di ogni altra hanno impresso nel nostro immaginario la testimonianza e le ferite del Novecento, «secolo breve» che il terzo Millennio non è ancora riuscito a lasciarsi le spalle. La prima, L’Urlo, partorito a fine Ottocento dal genio di Munch, è una profezia dei suoi orrori a venire, che sgorga dalla bocca di un uomo che geme disperazione e impotenza. La seconda, una delle tante sculture che Alberto Giacometti ha iniziato a realizzare nel secondo dopoguerra, è la più radicale e intensa diagnosi di quel che resta dell’umanità sopravvissuta a quel grido inascoltato e a quelle e tragedie: uomini e donne che avanzano verso il nulla o ci guardano irrigiditi in posa frontale, larve di esistenze fossilizzate, il corpo rinsecchito come steli di alberi pietrificati, la pelle una somma di cicatrici, suture, asperità, il movimento imprigionato in una morsa che fa venire in mente i piedistalli di cemento con cui la mafia seppelliva in mare le sue vittime.

Figure che racchiudono dolore ma emanano, ultimo respiro e appiglio d’umanità, una dignità solenne, inquietante e remota da dei o re decaduti. L’esatto opposto di una terza icona che l’arte del Novecento ci ha lasciato ad effigie del suo progressivo e sempre più diffuso rifiuto a scendere oltre la superficie: le donne ingorde, bulimiche, e modaiole che popolano la scena figurativa inventata da Botero, e quel clima illusorio da grande abbuffata con cui il «secolo breve» si è congedato.

È un piccolo campionario di riflessioni e sconfinamenti che la visita alla mostra su Giacometti, allestita nelle sue sale dalla Galleria Borghese fino al 25 maggio, ci ha lasciato dentro. Un prologo magari fuori tema reso meno arbitrario dal copione di paralleli, divagazioni e confronti che questa dimora romana di fasti e capolavori barocchi in qualche modo ci impone, come già aveva fatto qualche anno fa quando aveva ospitato il suggestivo gioco di specchi tra due cuori di tenebra come Bacon e Caravaggio.

alberto giacometti2Quaranta sculture di Giacometti, la più ampia retrospettiva mai ospitata in Italia, sgranate lungo un percorso di intriganti controcanti. La classica, levigata opulenza della Paolina Borghese di Canova che dialoga col sintetico candore dei tre blocchi sovrapposti dello stesso marmo su cui nel ’29 Giacometti, rielaborando la lezione cubista e la sua vocazione surrealista degli esordi, aveva cesellato la sua «Testa che osserva». Con due piccoli bronzi, sempre del ‘29,con cui l’artista italo svizzero rimodella e reiventa come un architetto il dispiegarsi in uno spazio futuribile la stessa posa di donna sdraiata e le traiettorie aguzze e ondulate dei sogni di un’altra donna dormiente.

La plastica torsione del David del Bernini piegato a imprimere forza alla sua fionda opposta allo slancio frenato e all’equilibrio impossibile dell’uomo che vacilla di Giacometti (1950). La maquette di figure aspre e rigide come stalattiti della Foresta (1950) e la ieratica posa del filiforme guerriero in equilibrio sulle due grandi ruote del Carro (1950) che sfidano l’incantato groviglio di metamorfosi dell’Apollo e Dafne del Bernini. I busti dei Cesari della Sala degli Imperatori che assistono all’allucinato, straziante spettacolo di declino della Gamba (1958) appoggiata come un relitto alieno su un piedistallo, di quella Mano (1947) assottigliata e protesa come a implorare una tregua al trascorrere vorace e impietoso del tempo, che è esposta subito a fianco.

Ma la chiave della svolta iconografica, che segna una decisiva tappa della maturazione d’autore di Giacometti, ne sigilla l’abbandono delle suggestioni «astratte» del debutto e l’originale conversione figurativa, trova la sua collocazione e il più compiuto adattamento scenico di questa teatralissima mostra nella sala degli Egizi, dove nella cornice dell’ambiente a tema, che celebra l’esotismo da mecenate dei Borghese, i curatori hanno sistemato l’elegante silhouette in bronzo della Donna che cammina, realizzata in bozzetto tra il 32 e il 37 e poi fusa del ’69, modello di tutte le successive creazioni. Sincero tributo all’arte egiziana, che Giacometti scopre come folgorante punto d’approdo della sua passione per la plastica arcaica. È lì a contatto con i capolavori della Terra del Nilo che Giacometti trova una duplice bussola alla sua iconografia in gestazione: quella della posa frontale, del movimento bloccato sull’avanzamento di una gamba, che è motivo ricorrente della statuaria dei grandi faraoni e quella contrapposta dell’accentuato realismo, che segna la breve ma unica stagione di eresia del regno di Akhenaton. Ma ci vorrà più di un decennio perché da quella superficie luccicante che evoca l’alchimia dell’alabastro, la tensione creativa di Giacometti arrivi a concepire e rappresentare corpi, che conservando lo stesso orientamento, assumano su di sè le ferite, i conflitti, le abrasioni, gli scarti del mestiere di esistere e l’inesorabile mummificazione del tempo. Una stagione che lo incorona tra i grandi maestri del Novecento. E che questa mostra testimonia con una quindicina di opere di straordinario impatto, che a mezzo secolo di distanza, continuano a sorprendere e a vibrare di novità.

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