Alessandro Boschi
Visioni contromano

Canto al perdente

Con "A proposito di Davis" i fratelli Coen virano dall'ironia nera alla malinconia venata di surrealismo. Grazie alla storia di un cantautore irresoluto. E al suo inseparabile gatto rosso

A proposito di Davis, nuovo film di Joel ed Ethan Coen, è ispirato alla vita del cantante folk Dave Van Ronk e alla sua autobiografia intitolata The Major of MacDougal Street. La cosa più sorprendente della filmografia dei fratelli di St. Louis Park è la continua evoluzione. Che pur incappando in qualche complicato snodo fisiologico, mantiene la barra dritta e ci regala ogni volta un’emozione diversa, una soluzione narrativa nuova. Aiutata in questo da una delle caratteristiche insite nel loro fare cinema, vale a dire la continua intrusione di elementi surreali sovente intrisi di nostalgia. Approccio, questo, che rende imprevedibile ogni storia, anche quelle più banali, o che addirittura, come in questo caso, si riferiscono a vicende note e certificate. I Coen sanno come pochi altri registi e sceneggiatori affondare la lama della loro capacità introspettiva mostrandoci dettagli che da accessori diventano nei loro film elementi fondanti.

Il protagonista è, come sembra andare di moda in questi tempi, un perdente ma con stile. Cantante con un passato di un certo successo e con un presente ricco di ombre, umane e professionali, il personaggio interpretato da Oscar Isaac attraversa il film rimanendo immobile, in quanto qualsiasi progressione gli è impedita. Quando prova ed emanciparsi con una gitarella fuori porta va incontro ad un’altra parziale delusione professionale. Parziale perché nessuno nega il suo talento, ma è la compiutezza del suo essere uomo che manca e ne determina un percorso sempre approssimativo, senza punti fermi. Il sottobosco di cantanti folk è descritto con molta cura e le canzoni sono eseguite dagli attori sempre in maniera impeccabile. E poi c’è un signore manesco, che apre e chiude il cerchio del racconto. E poi c’è un gatto. Un gatto rosso, che rappresenta il filo ovviamente rosso della storia e che in realtà è interpretato da più gatti. Non che in sé il felino rappresenti qualcosa, ma fa in modo che le cose si inneschino, nascano e si compiano.

Sembra un piccolo trucco, un espediente per strappare il consenso dello spettatore. In realtà è un paradosso, l’unica cosa che risvegli l’attenzione del protagonista che per tutto il film cerca di riacciuffare il fuggiasco a quattro zampe. Dalle prime commedia all’humor nero ad oggi i Coen hanno davvero fatto tanta strada senza perdere un grammo di qualità. Chissà, in altre circostanze avrebbero usato un gatto nero, magari gli avrebbero messo una benda da pirata sopra un occhio e lo avrebbero fornito di artigli affilati. Ma quelli erano i Coen del sarcasmo, oggi sono i Coen della malinconia.

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