Danilo Maestosi
Alle Terme di Diocleziano

Bianco Rodin

Dopo Milano, arriva a Roma una grande antologica del grande scultore. I marmi e i gessi del padre del "Pensatore” e del “Bacio” disegnano un percorso interiore spettacolare a tre dimensioni

Arriva da Milano, e va in scena fino al 5 maggio al museo delle Terme di Roma la più ampia antologica mai dedicata in Italia ad Auguste Rodin (1848-1917), l’artista francese che più di ogni altro ha dischiuso alla scultura gli orizzonti della modernità, conquistando con le sue forme seducenti, compiacenti e ardite il cuore dell’alta e media borghesia dell’epoca e un gradimento di pubblico che nessun altro maestro dell’arte plastica avrebbe più eguagliato. È una mostra in coproduzione, chiavi in mano, come in tempi di magra usa sempre più spesso per smezzare spese e rischi: stesso allestimento, stesso numero di opere, una sessantina, provenienti in gran parte dal museo Rodin di Parigi. Ma il trasloco nella capitale aggiunge due richiami in più. Un’ambientazione tra i marmi classici e le austere pareti di un’enorme aula delle Terme di Diocleziano, complesso riconvertito da Michelangelo, che rende più esplicito il debito d’ispirazione che Rodin ha contratto con l’arte antica e con il più poliedrico genio del Rinascimento italiano. E un appendice, curata e ospitata dalla Galleria d’arte moderna di valle Giulia, che documenta come il nuovo vocabolario formale introdotto da Rodin abbia influenzato i nostri scultori primo Novecento: confronto in cui ,in senso opposto,giganteggia come apripista la figura di Medardo Rosso, magistrale interprete di un corpo a corpo con la materia e con i fremiti in gestazione che sprigiona,analogo per molti versi a quello dell’artista francese ma sicuramente più rigoroso e radicale.

rodinIl primo colpo d’occhio che offre il percorso è davvero mozzafiato. A chi varca l’ingresso delle Terme si staglia di fronte il bianco levigato e smagliante e il groviglio di corpi, del «Bacio», uno dei capolavori di Rodin, la sua icona più gettonata e trafugata: esplosione di pura sensualità che annulla in un impeto di fusione e piacere i contorni di quell’incontro di labbra. Scolpita nel 1882 sigillò con lo scandalo l’inarrestabile ascesa di quello scultore capace di fondere in una stessa opera la tradizione del mondo classico, l’enfasi del romanticismo, le trasgressioni e la frenesia dell’impressionismo, il senso di decadenza e mistero del simbolismo. Alla spalle di questo celebre inno alla vita un colpo d’ala di regia lascia intravedere come sfondo un mosaico romano in bianco e nero che raffigura uno scheletro e introduce il contrappunto cupo della morte, evocando un contrasto che è uno dei leit motiv sotterranei della poetica di Rodin.

rodin2Subito dopo però lo spettacolo cambia registro. E l’allestimento, file di banconi di legno imbottiti di statue e modellini di gesso, che tagliano in varie file la sala come scaffali d’un officina di pezzi ricambio, fa evaporare quel clima d’aura creativa e bellezza , che il prologo ha contribuito ad evocare, per immergerci nel fervore pragmatico di una fabbrica di figure a tre dimensioni. Allineati senza intervallo uno accanto all’altro, alternati a volte da piccole e rugginose maquette, che ne anticipano lo sviluppo in marmo su scala più grande , quei pezzi appaiono inesorabilmente sfocati. Senza gerarchia: nel primo scaffale la testa dell’uomo dal naso rotto del 1874, esplicito omaggio a un analogo busto di Michelangelo, che il Salon bocciò e respinse al mittente appare accanto a un mediocre e scontato ritratto di stampo rococò di una gentildonna. Senza distinzione di qualità: su altri banconi piccoli gioielli come la enigmatica, grottesca figura della «Donna pesce», sono sommersi da gruppi marmorei, più grandi ma meno originali. Tessere intercambiabili di un immaginario, attento alle mode dell’epoca, che mescola le vibrazioni intense di un nuovo modo di rappresentare il movimento con le torsioni ammorbidite del liberty, la mimesi naturalistica agli stilemi e alle fughe interiori del simbolismo.

Solo nell’ultimo capitolo, dedicato alla lunga stagione del non finito, cui Rodin approda sull’onda delle suggestioni, fraintese, delle pietà incompiute di Michelangelo, le dimensioni e l’impatto dei ritratti e dei pezzi esposti, recuperano una visione d’insieme meno spaesante. Ma ormai il gioco è fatto: il volto d’artista che la mostra disegna collima con quello del fondatore di una bottega in cui le icone delle modernità si fabbricano su commissione, un tanto al pezzo, clonando, se serve, gli esemplari più riusciti e richiesti. In cui l’autore introduce l’idea e da l’ultimo tocco ma il resto viene affidato ad oscuri e anonimi artigiani d’intaglio. Con una gerarchia di ruoli e contributi creativi , che più che alle botteghe rinascimentali, fa pensare al cast di una produzione cinamatografica. O ancor più sembra profettizzare l’avvento di quelle factory che segnano da Warhol in poi il cammino di molti autori contemporanei: il concetto separato dal gesto concreto che dà, a poco a poco, vita e forma a un pezzo di marmo. Suddivisione di compiti da abile mercante di se stesso alla quale Rodin fece ricorso in maniera sempre più frequente per far fronte al successo. Ce lo spiega con dovizia la sua biografia. E più ancora un dettagliato saggio in catalogo. Peccato che la mostra ce lo lasci solo intuire.

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