Gabriella Mecucci
Sessant'annni di Rai fuori dal coro

Signore e signori, ecco a voi la Cultura

Bo, Contini, Emilio Cecchi, Bacchelli, Roberto Longhi, Ungaretti. Sono solo alcuni dei personaggi che popolavano “L'Approdo”, trasmissione radiofonica, poi televisiva nonché rivista trimestrale. È uno dei fiori all'occhiello del nostro servizio pubblico che ha fatto storia e audience ma che nessuno ricorda. Lo facciamo noi, riparlandone con il principale animatore: Leone Piccioni

Sarà bene stare fuori dal coro un po’ stucchevole che ha ricordato i 60 anni della Rai a colpi di Canzonissime, Lascia o Raddoppia, di Delia Scala, di Mike e di Mina. Nonché dell’inossidabile Pippo Baudo. Bravi presentatori, eccellenti cantanti, soubrette brillanti e amatissime. Eppure la Rai è stata qualcosa di più. Anzi, di molto di più. Sarà bene però non ripetere per l’ennesima volta che la televisione ha unificato l’Italia regalandogli una lingua parlata comune a tutti. O che il maestro Manzi ha alfabettizzato più di una generazione di nostri connazionali. Tutto questo è vero, ma ormai è stato ripetuto tante di quelle volte, da rischiare di diventare una banalità.

E allora come ricordare l’anniversario dell’arrivo del piccolo schermo in Italia? Invece di ritornare alla Rai dei grandi numeri: i 13 milioni di Portobello, e i pienoni di Bongiorno e Corrado, partiamo da un angolo un po’ più stretto. Parliamo dell’indimenticabile L’Approdo, trasmissione di cultura partita in radio nel 1952, sbarcata in tv nel 1963, sino ad arrivare alla carta stampata. Il percorso è straordinario e termina alla fine degli anni Settanta con notevole successo di critica, ma – non sembri strano – anche di pubblico. I due grandi animatori erano Adriano Seroni e Leone Piccioni. Uno comunista, l’altro democristiano, nientemeno che figlio del ministro degli Esteri Attilio Piccioni, legatissimo a De Gasperi. Era l’epoca dei grandi scontri ideologici, ma i due non se ne fecero prendere la mano. La cultura andava preservata: era cosa diversa dalla politica. Su quel terreno si poteva fare una ricerca comune. E così riuscirono a coinvolgere personalità di idee e passioni diverse, talora opposte, ma pronte a dare il meglio di loro. E L’Approdo propose proprio il meglio della cultura italiana. Nel comitato c’erano studiosi come come Bo e Contini, come Emilio Cecchi, Bacchelli e Roberto Longhi. E soprattutto c’era quel Giuseppe Ungaretti, che imparammo a incontrare durante gli appuntamenti televisivi mentre leggeva versi meravigliosi col volto intenso e con gli occhi saettanti. Letteralmente indimenticabile. Il poeta ermetico era grande amico di Leone Piccioni: lo chiamava Leoncino e lui ricambiava con un sobrio e rispettosissimo Maestro (come si legge nel carteggio tra i due, recentemente pubblicato negli Oscar Mondadori con il titolo L’allegria è il mio elemento, ndr).

E poi a quell’impresa multiforme vi collaborarono una schiera infinita, per qualità e quantità, di intellettuali: da Gadda a Pasolini, da Montale a De Robertis. Tanti di loro parteciparono a un vero e proprio gruppone di amici che frequentava caffè come Le Giubbe Rosse a Firenze e Aragno a Roma, che diventeranno simboli di un modo di vivere e di incontrarsi.

La televisione insomma fece cultura. E che cultura! E gli artefici del “miracolo” diventarono un “circolo” che scriveva, poetava e sapeva anche scherzare e divertirsi. Il solito Ungaretti, poeta della speranza e dell’allegria, sfotteva: «Montale diventa senatore e Ungaretti fa l’amore». Non ne risparmiava una agli illustri colleghi. Non mancava di rivendicare la propria vita scoppiettante e trasgressiva rispetto a quella più pantofolaia di alcuni di loro.

Insomma dal 1952, quando L’Approdo esordì in radio, al 1963 quando venne fatto in televisione, e da allora sino alla fine degli anni Settanta, la trasmissione diventò un luogo di cultura, ma anche di vita e persino di gioco. Dopo tanti anni, la Rai cercò di rinverdirne i fasti: decise cioè di realizzare un nuovo Approdo. Fu un bagno pazzesco. Non ebbe audience. Nessuno se la guardò? Perché? Erano peggiorati gli italiani? Oppure la televisione non era più in grado di fare cultura? Era successo che i partiti, e non solo, avevano invaso tutti gli spazi e, mentre le ideologie erano finite, gli intellettuali, o almeno la larga maggioranza di essi si erano messi al servizio dei potentati di turno. Un vero e proprio paradosso: la cultura all’epoca della cosiddetta “laicità politica”, anziché diventare sempre più indipendente, prese a essere ancella del potere.

Leone Piccioni a questa spiegazione, ne aggiunge un’altra forse più semplice e insieme più profonda: «La verità è che ormai in Italia non ci sono più personalità del calibro di Gadda o di Ungaretti. Quelle straordinarie vette non si raggiungono più. È tutto più appiattito. Non è vero che gli italiani non guarderebbero una bella trasmissione culturale, ma non c’è più chi la sappia fare davvero». «Non posso dimenticarmi che quando ci fu lo sbarco sulla Luna – prosegue – portammo in studio Giuseppe Ungaretti. Il suo commento fu splendido e il pubblico televisivo lo apprezzò moltissimo».

La Rai però questo pezzo della sua storia se l’è dimenticata. Per questo nel suo sessantesimo compleanno non l’ha nemmeno nominata. Eppure nella sua vita non ci sono state solo canzonette, quiz e lustrini. Ma anche i meravigliosi sceneggiati che portarono sullo schermo la grande letteratura, tanto buon giornalismo, e una grande trasmissione di cultura. Sepolti purtroppo dall’oblio dei nuovi “bravi presentatori”.

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