Nicola Fano
Il ritorno del premio Nobel

Puzzle Vargas Llosa

“L'eroe discreto”, il nuovo romanzo dello scritto peruviano, è un gioiello perfetto e cattivo: quasi un giallo, in cui padri etici e figli immorali rappresentano la trasformazione (e la perdizione) della società

Per Natale mi sono regalato L’eroe discreto di Mario Vargas Llosa (Einaudi, traduzione di Federica Niola, 382 pagine, 21 euro): un po’ caro, ma non c’è da pentirsene. Davvero. È inutile andare a cercare l’aggettivo giusto: Vargas Llosa è un grandissimo, il Nobel del 2010 ci sta tutto, però, ecco, va un po’ a singhiozzo. Un romanzo sì e un romanzo no. O quasi. Una persona cara mi fece scoprire, sarà stato venticinque anni fa, La zia Julia e lo scribacchino: splendido. E da lì ho avuto un quarto di secolo per perlustrarlo in lungo e in largo. La città e i cani no, Elogio della matrigna sì; I cuccioli no, Chi ha ucciso Palomino Molero? sì. Poi c’è il capolavoro assoluto, Avventure della ragazza cattiva, seguito dal peggiore dei suoi libri, Il sogno del celta. Ne consegue, dunque, che L’eroe discreto appartiene pienamente alla serie sì. In mezzo ci metterei un libro cattivo e di rara lucidità: La civiltà dello spettacolo dedicato alla perdita di senso dell’idea stessa di cultura. È un saggio durissimo sui costumi dell’Occidente, l’atto d’accusa di un intellettuale libero, che non ha nulla da perdere, non ha peli sulla lingua e dice le cose come stanno: siamo precipitati nell’ignoranza e del cattivo gusto. Un pozzo senza fondo dal quale non torneremo più indietro. E tutto per un pugno di dollari (o di euro, o di lire o di pesos… l’America in sé non c’entra).

Bene, veniamo al romanzo. La vicenda si apre di qua con il titolare di una piccola ditta di autotrasporti di Piura che riceva una lettera minatoria nella quale qualcuno gli chiede di pagare il pizzo, e di là con un vecchio mago della finanza, proprietario della maggiore azienda di assicurazioni del Perù, che a Lima annuncia al suo amico/collaboratore l’intenzione di sposare la propria donna di servizio. Dal glamour di Lima alla provincia estrema di Piura ci sono dodici ore di automobile (lo scopriremo in diretta): un mondo, in pratica. Eppure il romanzo – dopo essersi sviluppato in un continuo, perfetto montaggio parallelo – finisce con l’autotrasportatore di Piura e l’amico/collaboratore di Lima (e rispettive mogli) imbarcati sullo stesso aereo per Madrid. In mezzo a questi due estremi c’è il pandemonio. Un tric-e-trac di avvenimenti che ruotano intorno a due centri: ci sono due padri pieni di limiti umani e culturali ma dotati di un’eticità intangibile, e dei figli (di ciascuno) variamente immorali, variamente idioti, variamente criminali. Di fatto, si tratta quasi di un giallo che si scioglie del tutto solo alla fine di una lunga serie di colpi di scena. Salvo che presto si intuisce (o si dichiara) chi siano i personaggi negativi: i figli.

Non è da credere che Vargas Llosa ce l’abbia genericamente con i ggiovani. No, le storie sono metafore. Diciamo che questo romanzo rappresenta l’applicazione narrativa dei concetti espressi nel saggio La civiltà dello spettacolo: i “figli” sono i tempi nuovi senza più regole, senza dogmi, senza limiti; i “padri” sono i tempi vecchi, piccoli, storti e malfatti con il timone dritto dei valori. Tanto è vero che il personaggio più curioso della storia (una figura apparentemente marginale, quasi un “caratterista”), è il figlio dell’amico/collaboratore di Lima, un adolescente ossessionato (non sapremo mai se davvero o in modo illusorio) da una specie di diavolo in carne e ossa che lo incrocia e lo interroga in continuazione.

Non so. Forse questo libro mi è piaciuto molto perché sto invecchiando. O perché ho condiviso quasi ogni parola della Civiltà dello spettacolo con il suo gusto distaccato per l’invettiva furiosa e sapiente. O perché è un bel libro è basta, costruito con una maestria rara. Non solo le due storie parallele si legano alla perfezione (fino a congiungersi alla fine in modo incredibile!) ma ogni capitolo è al proprio interno montato mediante incastri complessi e bellissimi: salti di tempo e dialoghi alternati. Una vera goduria. E d’altra parte deve essersela goduta fino in fondo lui stesso, Vargas Llosa a pensare e costruire questo puzzle a tema. Perché tra i romanzi sì e i romanzi no c’è comunque una linea rossa che lega tutti i titoli: lo spasso dell’autore. Ora, se – come è giusto che sia – consideriamo Vargas Llosa totalmente alternativo a García Márquez (la loro biografia, con il famoso cazzotto che li divise lo dimostra…), devo ammettere che io sto tutto dalla parte del colombiano. Ma per García Márquez (lo ha dichiarato un milione di volte) la scrittura è sofferenza, mentre Vargas Llosa scrive per sé, per il suo proprio piacere: e in questo sta la sua unicità. Si diverte, anche quando ci dice che l’umanità fa schifo.

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