Alberto Fraccacreta
Gioventù bruciata anni Duemila

Un po’ Oblomov un po’ masnadieri

Ribellione e indolenza alimentate dal caos del Tutto e dal Nulla quotidiano. Sottratti al futuro lavoro e famiglia, viene a mancare la pietra su cui poter «costruire il muro». Analisi spietata di una generazione a cui l'autore di queste note appartiene...

Mancanza di un lavoro stabile e bovina promiscuità nei sentimenti: ecco il mix letale di droghe autoindotte degli anni Duemila. «Che lo vogliamo o no, siamo tutti psicoanalisti, amanti dei misteri del cuore e della mutanda, palombari degli orrori», saetta Cioran in uno dei suoi aforismi più noti. In Italia non c’è argomento tanto triste e trito di quello che prelude a una gioventù agonizzante quale siamo, scapestrati per sport, belatori provetti nel gregge autorevole di pastor Propaganda. In lerce balere notturne, forti di i-Pid, i-Pod e i-Pad tra le mani (i nuovi nipotini di Zio Mandarino), parliamo svogliatamente di “crisi” e suoi derivati: il fiore della nullatenenza s’anima. Poi si continua a chattare, estra­niando d’impeto i Sé Medesimi dalla Via Lattea, con un telefonino in dirittura, – questa escrescenza della lobotomia. Mentre i social-carcere, se adoprati con intelletto, riescono comunque a costituire una forma attiva di resistenza, è nelle chat-line che si commettono i maggiori crimini del villaggio globale: polverizzazione della lingua e delle sinapsi, incagliamento nel Discorso Vacuo, scempiaggini da idolatri del “nostro Nulla quotidiano” mescolati a logorrea beotica.

Il Deserto del Gobi della libertà sessuale che ne deriva, conduce questi crapuloni ticchettanti, stupratori ignari del proprio avvenire, al narcolettico oblio dei fini, della responsabilità individuale e dell’etica; esso collima in un superiore e ben più grave vassallaggio: l’attesa spasmodica, quasi costrittiva, di un Eden delle ghiandole che sempre tradisce, perché sempre trasforma la persona, imbellettata di narcisismo e prospettivismo nietzschiano, nella prima vittima sacrificale di Madonna Fisiologia, divinità una e ca­prina, irrimediabilmente staccata dal cuore e dall’affetto, esempio di una volontà di potenza da caterpillar. Così l’uomo-ghiandola duella in lordure con la donna-ormone: grazie a codesto vitalismo esacerbato si conclude la gloriosa stirpe degli umanoidi, privata, per la speculazione di qualche egoico delirante travestito da “storico delle idee”, di ogni tipo di “superpotere” che proveniva dall’Alto.

L’uomo-ghiandola occidentale, al quale nulla manca, sebbene sia perennemente “in crisi depressiva”, diventato un parolaio feticista del gergo clinico e dei Paradisi artificiali provocati dal Multiforme Amplesso, ancora sotto la giurisdizione del padre, vomita le sue umbratili paturnie a uno sconosciuto in camice, credendo bene di seppellire il suo Abgrund e le vertigini abissali con qualche molecola d’umore. La donna-ormone, invece, arrampicatrice sociale par exellence, sputacchia sui bamboccioni andropatici (suprema contraddizione!) che le capitano a tiro, fustigandoli a ogni tipo di relazione monca, salvo poi ripensarci non senza dolore: natura clamat e la reclama al ruolo di madre, professione scomoda per una Disperate Careerwife, eppure sentita intimamente dal senso di cura che le brucia dentro, in pectore, per così dire, e al quale non riesce a rispondere come vorrebbe.

Questa meschina società tecno-economica, architettata da tecnocrati, plutocrati e altri ‘crauti’ più o meno occulti, ci ha privato degli essenziali fattori di stabilità che la vita prevede: il lavoro e la famiglia. Una gioventù masnadiera iscrive ora il futuro che si appressa al di là della coltre: Karl Moor e Oblòmov – suo contraltare letterario – in un solo scheletro. Del primo cogliamo la feticciosa rivolta e la passione esautorante del superomismo da ufficio; dell’altro il sogno, l’indolenza prorogata e il divano quale attributo ontologico. «“Ora o mai più! Essere o non essere!”. Oblòmov voleva alzarsi dalla poltrona, non trovò le pantofole e sedette di nuovo»: chiaro imperativo di una condicio sine nulla, uno Schicksal fin troppo concreto che adduce al tramonto di qualsivoglia istituzione e all’affermazione di un anarchismo esistenziale, prima che psicologico. Il caos del Tutto è il nostro elemento: segue il trasgredire emotivo per mancanza di realtà, attività e apparentamenti proibiti.

La duplice maschera di ribellione e indolenza, calzata da un solo emaciato volto, agisce come illusione di pensiero, deterrente delle cose e del tempo che passa e si mantiene; una veduta di tranquilla normalità ci assale nel magma, perché privi di modelli, valori autentici con cui confrontarsi. Manca il Grund quotidiano: il fondamento dei nostri discorsi, la pietra dove poter «costruire il nostro muro». La slavina colpirà quando anche un briciolo di coscienza sarà rimosso. Allora ci accorgeremo che è ben triste una vita senza affetto e senza occupazione, una vita nell’instabile Nulla, e la percezione contemporanea dell’oblomovismo e del masnadiere parrà più forte, più imprigionante. Impacciati operai del radical-chic a buon mercato, traditori indefessi, saremo testimoni di promesse tradite: e la vita, intanto, sarà passata. Eppure, in mezzo alle tante asperità di tali maschere fluttuanti, di tale “pasticciaccio” ultragaddiano, ancora brillano gli Aleša Karamazov e le Amalia von Edelreich: tipi umani incontaminati e puri: quelli/e che ancora non siamo, ma che, con rammarico e senso della verità, vorremmo un giorno essere.

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