Laura Novelli
In scena all'Argentina di Roma

La stile Delbono

Siamo soli, disperati, violenti, disillusi, frustrati, infelici: il teatro di Pippo Delbono ci rappresenta così. Anche in ”Orchidee“. Tra emozioni, suoni, ricordi e citazioni, da Senghor a Kerouac a Cechov

Luci alte in sala. La voce di Pippo Delbono ci arriva dal fondo della platea. Lo spettacolo prende anima ed è un’autobiografia colloquiale a dettarne la sostanza intima: il senso del fare teatro oggi, le ultime ore di vita della madre, l’esperienza della morte, il desiderio (im)possibile di fermare questo nostro tempo che fugge, di inchiodare alla terra gli affetti più veri, di trovare un posto in un mondo che non ci piace. Partendo da questo grumo di verità personali, l’autore, attore e regista ligure, in questo suo ultimo lavoro, Orchidee il titolo, compone un corpus di immagini, parole, musiche, gesti, coreografie che sembrano rincorrersi lungo traiettorie di analogie, richiami, urgenze, immaginari quasi istintivi e, proprio per questo, universali.

Abbandonata dichiaratamente ogni tentazione testuale, Delbono si mette in scena e mette in scena il suo gruppo (tra gli altri, Bobò, Gianluca Ballarè, Pepe Robledo, Dolly Albertin, Nelson Lariccia, Ilaria Distante) per mostrarci brandelli di umanità alla disperata ricerca di risposte archetipiche, mentre la vacillante società in cui viviamo stritola i nostri bisogni primordiali, rendendoci soli, disperati, violenti, disillusi, frustrati, infelici. C’è dunque tanta angoscia in questo compassato urlo di dolore. Ma, a ben vedere, si tratta di un’angoscia che commuove, che ci tira dentro, che non ha nulla di ruvido, anche perché affiora da un raffinato lavoro di montaggio drammaturgico, dalla costruzione “grottesca”, stridente diremmo, dei diversi materiali messi in gioco, e soprattutto da come certi intarsi musicali (Enzo Avitabile, Deep Purple, Miles Davis, Joan Baez) arrivano improvvisi a spezzare le corde più liriche.

Il grande palcoscenico del teatro Argentina di Roma (dove lo spettacolo si replica fino al 19 gennaio) è completamente vuoto. A riempirlo ci pensano le immagini proiettate senza sosta sullo sfondo (figure geometriche in movimento, scorci naturalistici, manichini di uomini e donne, citazioni artistiche, paesaggi naturali, città ultramoderne), il sapiente gioco di luci, i corpi spesso nudi (e spesso fragili) degli interpreti, le loro rincorse, i loro caroselli briosi, i loro baci innamorati, i loro abbracci silenti. E ci pensano  i passi danzanti, volutamente maldestri e in dis-equilibrio, del demiurgo Delbono: voce che dice, che lega i diversi frammenti, incaricandosi di quelle virate epiche fuori dalla finzione alle quali ci ha abituato da sempre (arriva persino alla cronaca cocente, leggendo il comunicato stampa nel quale i dipendenti del Teatro di Roma lamentano la grave situazione di crisi creatasi dopo la scadenza del mandato di Lavia e Scaglia). La retorica è in agguato ma non stride; il ritmo a tratti rallenta forse troppo, ma non compromette la forza di un lavoro che sembra proseguire felicemente la linea stilizzata e pulita già rintracciabile in Questo buio feroce.

E infatti l’ordito visivo, qui così accurato, trova forte rispondenza nella scelta dei brani letterari  recitati, rielaborati, urlati, sospirati. Primo fra tutti, “Romeo e Giulietta” di Shakespeare (manifesto dell’amore che l’artista di Varazze già usò, ad esempio, in uno dei passaggi più intensi de “La Menzogna”) e poi “Essere o non essere” e i versi della morte di Ofelia che accompagnano le toccanti immagini in presa diretta degli ultimi minuti di vita della madre: carezze sulle mani parlando di Sant’Agostino. Accanto a citazioni di Jack Kerouac, Peter Weiss, George Büchner, Leopold Sedar Senghor, c’è spazio anche per Cechov: il senso di disfacimento, di perdita, di vuoto si completa grazie alle parole del Giardino dei ciliegi, laddove la vendita della proprietà rappresenta la sconfitta della famiglia, dei legami di sangue, della sacralità collettiva di riconoscersi negli altri.

Motivo per cui, crediamo che stia proprio qui il cuore di quanto Delbono voglia dirci: è la solitudine dell’uomo occidentale la reale minaccia dei nostri tempi. E questa solitudine significa innanzitutto perdita di idealismo, perdita di riferimenti spirituali, culturali, politici. Perita di verità: l’orchidea è un fiore unico ma è difficile riconoscerne uno falso, distinguere il simulacro dal reale, ciò che ci rende umani (e simili) da ciò che ci distoglie e ci inganna. C’è dunque tanta angoscia in Orchidee – è vero – ma è messa lì, sotto gli occhi di tutti, affinché tutti possano capovolgerla in luce, respiro, atto d’amore.

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