Maria Chiara Bruno
Cercasi drammaturgia italiana

Il teatro esterofilo

«Parole incatenate» scherza con i serial killer e con il femminicidio. E costringe i due interpreti, Claudia Pandolfi e Francesco Montanari, a una prova maiuscola per risollevare le sorti di un copione inutile. Straniero, naturalmente

Un thriller ripetitivo e prevedibile tenuto su da un bravissimo Francesco Montanari e una miracolosa Claudia Pandolfi. È Parole incatenate di Jordi Galceran, ancora in scena fino all’8 gennaio al Teatro Quirino. La regia di Luciano Melchionna è corretta, intelligente, pulita. Come sono azzeccate luci, musica e scenografia. Un bell’allestimento, quindi. Una buona direzione di attori per un testo di scarsissimo rilievo drammaturgico e spessore psicologico, che punta tutto sulla maniacalità di dettagli violenti e perversi.

Il sipario si apre su una donna legata e imbavagliata che fissa lo schermo gigante di un cinema abbandonato. Sullo schermo un primissimo piano di Francesco Montanari, killer che descrive a sangue freddo il suo primo assassinio. Quando in sala si accendono le luci, l’omicida si avvicina alla vittima e le annuncia la sua prossima fine. L’unica possibilità che le da per guadagnare tempo è giocare e vincere a Parole incatenate: un gioco che lega le parole ripetendo l’ultima sillaba della precedente come prima della successiva. Il resto dello spettacolo è un ribaltamento continuo della situazione: Laura, la donna rapita, è l’ex moglie di Roberto che, dopo il divorzio ha mentito in tribunale per tenersi l’appartamento. Una separazione che l’uomo sembra non aver gradito tanto da decidere di trasformarsi in un assassino seriale. Ora vuole delle spiegazioni, estorce una confessione passando dai toni della follia a quelli dell’amore tradito, dalle minacce alle avances. Per più di una volta – e di certo una volta di troppo – il testo ribalta gli umori di attori e spettatori chiedendo a tutti di credere nella buona fede dell’uomo che avrebbe organizzato una finta mattanza per vendicarsi della crudeltà muliebre e tornare, infine, con lei. Quasi ininfluente l’esito finale.

Montanari parte con un’interpretazione sopra le righe che lascia credere che l’uomo abbia perso la testa e sa ben accompagnare i continui cambi di registro. Pandolfi, alla sua prima prova teatrale, regge bene questa altalena e restituisce disperazione e terrore, per poi cedere persino ad un bacio. Un caso, quello della scelta del testo, in cui, forse, uno slancio di esterofilia ha accecato la produzione. Se l’intenzione fosse stata davvero scandagliare la complessità dei rapporti di coppia (come si legge nella breve presentazione «…in cui verità e finzione, desideri e bugie parlano della parte oscura e torbida che è in ciascuno di noi»), la scelta di Galceran è inopportuna poiché le intenzioni del thriller sovrastano ampiamente quelle dell’analisi di sentimenti e pulsioni di amore/odio. Se piuttosto la scelta del testo è stata guidata da opportunità commerciali, il pubblico del Quirino doveva essere avvertito tanto è distante il genere proposto da quello che nella platea di via delle Vergini ci si aspetta di vedere.

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